È morto l’11 dicembre a 59 anni il regista sudcoreano Kim Ki-duk. Prossimo a compiere 60 anni (è nato infatti, il 20 dicembre 1960, a Bonghwa) si è spento a causa del Covid-19 uno tra i maggiori esponenti del cinema coreano, in Lettonia, mentre era impegnato a cercare una casa dove poter soggiornare durante le riprese del suo prossimo film. Per le poche dichiarazioni e interviste da lui rilasciate, per gli ultimi casi nei quali era stato coinvolto, non è semplice ricostruire la sua vita.
Famiglia povera quella di Kim Ki-duk, che si manteneva con il lavoro dell’agricoltura, che non spinse, né poté farlo per le sue condizioni, Kim e il fratello alla frequenza degli studi. Per Kim la carriera scolastica si concluse in un istituto di avviamento professionale per poi iniziare il lavoro in fabbrica all’età di 15 anni: “Non avevo nessun amico. Il mio unico amico a scuola era meticcio e la gente lo disprezzava. Il mio solo amico era il figlio di un soldato americano disperso. Era presente nel mio film, Address Unknown”, ci dice in un’intervista. Kim Ki-duk, maggiorenne, si arruola nell’esercito e, con il suo carattere irruento e irrequieto, entra in una sezione speciale molto simile a quella dei Marines americani, prestando fede alla Nazione pensata come fondamento: “Sii leale verso il Paese, accresci il prestigio nazionale”.
Anche questo costituisce una chiave di lettura autobiografica di alcuni dei personaggi dei sui film, si veda, per esempio, l’omonimo caporale Kim di The Coast Guard 2002. La scrittura filmica, diventa per Kim Ki-duk una “necessità” per dire di sé nel mondo, attraverso la sua esperienza della vita. Per quanto, poi, la società sudcoreana si mostri polivalente nelle sue espressioni religiose, la famiglia di Kim Ki-duk è cristiana e questo costituirà un dato importante per il giovane regista e il suo cinema, dove si confronterà con i concetti di morte e speranza, redenzione e salvezza.
Racimolati dei soldi, parte per la Francia, Montpellier, Parigi, mettendo in pratica le sue velleità artistiche. Anche in questo caso non fa studi, né corsi, ma si lascia andare a quello che internamente lo spinge a creare avvicinandosi sempre maggiormente dipingendo figure che corrispondono a emarginati, agli esclusi dalla vita parigina bella e mondana.
Vagabondo per il mondo, come dentro l’anima, giunge in Germania. A Monaco rimane affascinato prima da G. Klimt poi da E. Schiele, e ne imita la ritrattistica ammettendo che “originariamente mi piaceva più Gustav Klimt, ma guardavo molto il lavoro di Schiele più e più volte, e mi sono ispirato a lui”.
È nel 1993 che rientra in patria, in Corea e comincia a scrivere le prime sceneggiature che gli varranno dei premi: 1993 A Painter and a Criminal Condemned to Death, primo premio a Educational Institute of Screenwriting; 1994 Double Exposure, terzo posto del concorso per sceneggiature del Kofic (Korean Film Council); 1995 Jaywalking, vince come scrittore per il cinema sempre al Kofic.
Nel 1996 esordisce come regista, con il primo lungometraggio, Crocodrile, alla prima edizione del Busan International Film Festival. Anche per il cinema, Kim Ki-duk si affida al suo talento innato, niente scuole, né corsi propedeutici. Addirittura si sa che non ha mai fatto indigestione di film se non la visione de Gli amanti del Pont-Neuf di Léos Carax, L’amante di Jean-Jacques Annaud e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.
Kim Ki-duk rivela fin da subito uno stile autoriale personale e di difficile incasellamento all’interno dei generi. Se si vuole dare una definizione potremmo dire che si tratta di un realismo in cui s’innestano spesso fughe fantastiche, oniriche, spirituali, quasi blasfeme.
Non erano mancati i premi ai festival più importanti a livello mondiale a partire da The Isle (2000) premiato nel 2001 a Bruxelles, Oporto, Mosca e Venezia; a seguire i premi a Address Unknown e Bud Guy nel 2002 e gli innumerevoli premi a Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera tra il 2003 e il 2004, approdando all’Orso d’argento al Berlin International Film Festival nel 2004 con Samaria e nello stesso anno il Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia con Ferro 3 – La casa vuota. Più semplice è stato dopo l’anno 2011, quando è stato possibile conoscerlo attraverso il docufilm, Arirang, una confessione come lui stesso dice: “Riprendendo me stesso, voglio confessare la mia vita, come regista e come essere umano”. Uccisi i fantasmi del passato, con tre colpi di pistola, il nuovo Kim Ki-duk, torna in città e prosegue la sua narrazione cinematografica e nel 2012, con Pietà, un film audace e poetico al tempo stesso, quando vince il Leone D’oro alla 69a Mostra del Cinema di Venezia.
In Italia il cinema del regista sudcoreano è stato oggetto d’indagine da parte di alcuni studiosi: la bibliografia su di lui rimane sfortunatamente limitata nonostante la ricchezza e la profondità dei temi che emergono dalla sua produzione. Infatti, non sono i temi a essere difficili quanto, piuttosto, è complicato guardare le pellicole del cineasta sudcoreano, cariche di violenza e sangue. Torna nel 2013 con Moebius, una tragedia familiare, edipica che sfocia nell’evirazione del figlio e del padre; nel 2014 con One on One, un giallo il cui spunto è tratto dalla cronaca nera e vince il Fedeora Award, Best Film (Venice days); nel 2015 Stop, pellicola dedicata a Fukushima nel disastro post reattore-nucleare. Infine, nel 2016 torna la guerra, o meglio, cosa resta della guerra tra le Due Coree, Il prigioniero coreano. Protagonista un pescatore che rimane imbrigliato nella rete della diatriba sanguinosa tra Corea del Sud e Corea del Nord, presentato a Venezia, nella sezione “Cinema nel Giardino”. Il suo ultimo film, mai distribuito, è, invece, Human, Space, Time and Human del 2018, dove ritrae un’umanità giunta al collasso, senza più scampo per la redenzione.
Kim Ki-duk lascia sospeso il fiato con la sua morte. Mancherà un poeta oltre che un regista: mancherà il suo sguardo sull’uomo come essere capace di brutalità, vendetta e cinismo; mancherà la verità della crudeltà di cui è capace l’essere umano; mancherà la capacità di provarne pietà e compassione, mancherà Kim Ki-duk.