Il disco col faccione compie mezzo secolo. Sì, quello là con il volto paonazzo, gli occhi dolci che fuggono un pericolo alle spalle, le nari in primo piano come in un dipinto iperrealista e la bocca spalancata in preda al terrore. Il dipinto, realizzato da Barry Godber, è una delle più famose icone della storia del rock e costituisce la copertina del disco che viene esposto nei negozi di Londra il 10 ottobre 1969. Autore e titolo non compaiono in nessun punto, l’invito a comprare il disco viene affidato solo a questa immagine risultando un’operazione di marketing migliore di qualsiasi piano.
Molti lo comprano solo per la curiosità suscitata, e aprendolo, incontrano al suo interno a destra un altro ritratto: un personaggio sorridente, ma di un sorriso triste: con una mano sembra voler offrire qualcosa di sé, con l’altra compie un gesto benedicente.
Sulla sinistra si trova invece, assieme ai testi scritti dal poeta e paroliere del gruppo Pete Sinfield, finalmente il titolo, e sotto, il nome del gruppo: IN THE COURT OF THE CRIMSON KING – an observation by KING CRIMSON che graficamente ripete il nome scambiandone l’ordine. Il disco farà dire a Pete Townshend “An uncanny masterpiece. An uncanny masterpiece.”
L’uscita del disco è la punta dell’iceberg di quella esperienza dal nome King Crimson (“… è un modo di fare le cose” dirà Robert Fripp). Il gruppo nasce infatti dall’incontro dei fratelli Peter e Mike Giles e Robert Fripp con Pete Sinfield e Ian Mc Donald alla fine dell’anno di esordio e flop dei Giles, Giles & Fripp e del loro disco (A Cheerful Insanity of…) e dopo la sostituzione di Peter Giles con Greg Lake. Il 13 gennaio 1969 incominciano le prove al Fulham Palace Café e la goliardica e ironica musica del disco dei Giles, Giles and Fripp lascia subito il posto ad una energica e maestosa materia sonora. Passerà la primavera del ’69 in serate nei club di Londra come il Marquee, lo Speakeasy o il Revolution lasciando meravigliati critici in cerca di band emergenti e musicisti sulla cresta dell’onda come Jimi Hendrix (“questa è la migliore band del mondo” intercettata dalla moglie di Michael Giles seduta tra il pubblico mentre osserva il chitarrista di Seattle saltare sul posto) o musicisti che emergeranno di lì a poco (Bill Bruford e Peter Banks con gli Yes, Steve Hackett con i Genesis).
Il 5 luglio avviene l’esplosione di notorietà tramite la partecipazione tra le band di supporto al concerto all’Hyde Park dei Rolling Stones in onore di Brian Jones morto qualche giorno prima (nel pubblico un giovane ed entusiasta Jamie Muir che avrà un importante ruolo pochi anni dopo).
Dopo la registrazione dell’album nel mese di agosto, incomincia il tour negli Stati Uniti che logora la tenuta di McDonald e Giles: già a dicembre lasceranno la band (produrranno l’anno successivo l’omonimo album), seguiti da Greg Lake che accetterà l’invito di Keith Emerson con cui farà fortuna negli Emerson, Lake and Palmer. Lasceranno Pete Sinfield (parole) e Robert Fripp (musica) a raccogliere i cocci di questa intensa esperienza collettiva assistita dalla ‘fata buona’, in cui Mc Donald era il principale compositore: una sensazione di intesa tale da non poter scrivere niente di sbagliato. Ma per ripercorrere vita, morte e miracoli di questa prima incarnazione del re cremisi è necessario leggere il saggio, dall’omonimo titolo del disco, di Alessandro Staiti edito da Arcana già recensito qui .
In questa esperienza che supera gli stessi protagonisti prende corpo l’album: non può che essere un’observation, uno dei possibili punti di vista. Sarà sufficiente, però, a lasciare quella sensazione di inaudito, di un disco che sembra uscito dal nulla e che segnerà l’esperienza di diversi artisti: i Genesis diventeranno i Genesis passando da ‘From Genesis To Revelation’ a ‘Trespass’ sotto lo sguardo del volto paonazzo appeso alla parete durante le prove; e gira voce che perfino un artista che si muove su mondi così lontani come Springsteen sia stato un “heavy King Crimson listener”.
Il tema del disco si inserisce nel clima culturale di critica alla società borghese dei movimenti giovanili di fine anni ’60. Costituirà il filo rosso di tutta la variegata produzione a venire e consiste in una presa d’atto di una realtà alienante, lo scontro delle contraddizioni e il tentativo di trovare una strada per conservare la propria umanità. A differenza dei movimenti hippie a base di peace and love, la visione della situazione umana è molto più pessimista, l’utopia diventa distopia: “il destino dell’umanità che vedo/ è nelle mani degli stolti”. Distopia che lascia scioccati gli ascoltatori come testimonia Gordon Haskell, amico di Robert Fripp che avrà proprio una turbolenta parentesi nella storia del gruppo, cantando poco tempo dopo nel terzo disco della band: “Il tempismo dei King Crimson fu assolutamente perfetto perché fu l’antitesi dell’ottimismo e bellezza dei tempi e fu una drammatica predizione di dove siamo ora. Tenete a mente da dove stavo venendo: amore, bellezza, felicità e spirito, li vidi come Satana!” (Sid Smith- In the court of king crimson).
L’ascolto di quell’ lp incomincia proprio con la distopia futuristica della celeberrima ‘21st Century Schizoid Man’. Un soggetto in preda al panico grida frasi sconnesse, filtrate da un distorsore, che ritraggono la tragedia dell’umanità “tortura insanguinata/filo spinato/pira funebre di politici/l’uomo schizoide del 21° secolo”. Dopo le prime due strofe trattenute segue la parte strumentale “mirrors” composta da Mc Donald durante il collegio militare “uno stralunato bipop”, il breve assolo schizoide di chitarra che sfocia in quello di sax distorto di Mc Donald, ripresa dell’ultima strofa di chiusura “seme di morte, l’avidità del cieco/poeti ridotti alla fame, bambini sanguinanti/non ha veramente bisogno di niente di ciò che ha/ l’uomo schizoide del 21° secolo” e finale dilaniato in cui ogni strumento impazzisce su linee divergenti. Insoddisfatto dei tentativi per registrare l’assolo di sassofono, Mc Donald dovette suonarlo in ginocchio per estrarre una versione abbastanza esasperata.
Alla deflagrazione del primo brano segue la dolcissima ‘I Talk To The Wind’, composta da Sinfield/Mc Donald, prima della nascita dei KC in chiave più folk (ne è stata pubblicata una versione cantata da Judy Dyble fuoriuscita dai Fairport Convention e allora fidanzata di Mc Donald).
Idealmente connessa alla ‘Blowing In The Wind’ di Bob Dylan e ‘Catch The Wind’ di Donovan è il dialogo tra un uomo dell’ancien regime ‘the straight man’ e un giovane hippie ‘the late man’, ma l’ottimismo dell’epoca è già svanito “guardo dentro da fuori/cosa vedo? /molta confusione, disillusione/ tutt’intorno a me//parlo al vento/le mie parole vengono portate via/parlo al vento/il vento non ascolta, il vento non può ascoltare”. La canzone è sorretta magistralmente da due flauti e un clarinetto sovraincisi da Mc Donald che si produrrà in uno strumentale di flauto che caratterizzerà la lievità del brano. Un flauto che svolazza leggero. Leggero come il vento.
Con la terza canzone finisce il primo lato ed entriamo nel cuore di questo viaggio. Si tratta di un canto funebre che si innalza sui falsi ottimismi del suo tempo ‘Epitaph’ è il suo titolo. “il muro su cui scrissero i poeti/si sta crepando alle giunture (…) nessuno poserà la corona d’alloro/ quando il silenzio affogherà le urla? / confusione sarà il mio epitaffio/ mentre striscio su un sentiero crepato/ se ce la faremo potremo sederci tutti a ridere/ ma ho paura che domani piangerò”. Confusione. Confusione è il giudizio profetico ancora attuale sull’uomo del 21° secolo e non resta che la compassione di un pianto in un’epoca in cui tutti non fanno altro che ridere. Il pensiero tragico dei King Crimson, sorretto nella prima tetralogia pubblicata tra il ‘69 e ’71 sotto la visione poetica di Pete Sinfield, si traduce nella materia sonora caratterizzata dal mellotron, il cui uso è accennato nei dischi dei Moody Blues, ma che qui acquisterà un ruolo centrale e costituirà le fondamenta di un sound uscito fuori dal nulla (ad Hyde Park la gente che non vedeva bene il palco si domandava dove suonasse l’orchestra). Un suono monumentale che ben sorregge il canto maestoso di Greg Lake.
Secondo i tracciati dualistici del pensiero gnostico di Sinfield e soci, se il primo lato del disco è illuminato dal sole, un sole spietato “la luce del sole abbaglia/ quando ogni uomo è dilaniato/ con incubi e sogni”, il secondo riparte al chiaro di luna con ‘Moonchild’ e comincia il lato notturno del viaggio. Due minuti e mezzo in punta di piedi dedicati alla figlia della luna, danzante sulla superficie di un fiume, una melodia tanto semplice quanto delicata che strega immediatamente l’ascoltatore già alla prima esposizione: realizzata con il solo segnale del riverbero della chitarra arriva come una lontana eco da un luogo magico, la batteria, di un musicista di rara sensibilità come Mike Giles, attutita con panni e asciugamani e discreti interventi di mellotron. Una melodia con una vena malinconica che commuoverebbe anche un cuore di pietra. Così si dipana il teatro notturno in cui si svolge il tempo della “solitaria figlia della luna/che sogna all’ombra di un salice” (…) “dorme ai piedi di una fontana/dirige con una bacchetta d’argento il canto degli uccelli notturni/in attesa che il sole sorga sulla montagna” (…) “adorabile figlia della luna/alla deriva negli echi delle ore//naviga nel vento con una tunica bianca come il latte/lasciando cadere pietre tonde su una meridiana/ gioca a nascondino con i fantasmi del mattino/ aspettando un sorriso… del figlio del sole”. Al canto segue una lunga coda improvvisata con chitarra jazz, batteria e vibrafono. Gli altri pezzi suonati dal vivo erano stati bocciati al giudizio su cosa trattenere su disco. A questo strumentale (“The Illusion”) viene affidato allora il compito di testimoniare in questa observation su vinile la natura improvvisativa dell’esperienza live del gruppo. Suoni di chitarra jazz, tintinnii di vibrafono e piatti sembrano esplorare il bisbiglio della notte, attenti a rivelare la vita nascosta prima che si dilegui timidamente alla venuta del sole. Nata come riempitivo rimarrà una carezza ad un silenzio pieno di possibilità, come il primo documento di un interesse per una musica silenziosa, composta da allusioni e cenni, che caratterizzerà fortemente l’approccio musicale di Robert Fripp nel corso della sua carriera.
Se fino a qui il titolo dell’opera indicava uno svolgimento all’interno della corte, conclude il disco il brano che descrive manifestamente la corte: ‘The Court Of The Crimson King’. Nasce da una canzone di protesta di Pete Sinfield del 1968 precedente al lavoro collettivo, notata e ricomposta a livello musicale da Ian Mc Donald; acquisterà la forma conosciuta dopo le prime settimane di prove collettive. Il suono del mellotron riporta subito alla grandiosa epicità, cifra di questa nuova musica. Siamo alla corte del sovrano: una distopia questa volta dal sapore nettamente medievale dove “le catene arrugginite delle lune carceriere/sono frantumate dal sole”. La società, nel ’68 di Sinfield, è descritta da simboli come il custode delle chiavi della città che chiude le persiane dei sogni (critica alle religioni organizzate) o altri personaggi manipolatori dell’uomo come il menestrello giallo che non suona, ma sfiora le corde e sorride alla danza del burattino o la strega di fuoco (mercante d’armi) evocata dal suono della campana d’ottone rotta. Un luogo dove “le vedove piangono nelle grigie mattinate/i saggi si scambiano una battuta/io corro per afferrare segni premonitori/per assecondare l’imbroglio”. Il tutto non più in un mondo lasciato a sé stesso, ma sotto lo sguardo dell’atteso Crimson King. Come un ‘to be continue…’ proteso verso nuovi capitoli.
A distanza di cinquant’anni l’attuale line up in carica dal 2014 ha dedicato tour in corso al primo disco in attesa del nuovo box con la rimasterizzazione ripulita dalle nuove tecnologie e la riedizione delle registrazioni live rilasciate per la prima volta alla fine degli anni ’90 nel cofanetto ‘Epitaph’.
Un’esperienza che Fripp giudicherà nel 2012 in questi termini: ‘La musica è un linguaggio nel quale si esprime la nostra lotta con ciò che rende tale un essere umano. Tornando indietro al ’69 e ai Crimson, questo è al centro di ciò che creò King Crimson”.
(Pierluca Mancuso)