Il 22 settembre 1981 viene pubblicato Discipline il disco della terza rivoluzione dei King Crimson.

La prima rivoluzione iniziò con il disco di esordio nell’autunno 1969. La seconda, con differente organico, pubblicherà la trilogia di Larks’ Tongues In Aspic tra il 1973 e il 1974 quando Robert Fripp, deluso dalla crescente disumanizzazione della vita di un musicista nell’industria discografica, dichiara che “King Crimson cessò di esistere appena prima della pubblicazione di Red” e si ritirò per due anni a seguire gli insegnamenti gnostici di Gurdjieff.



“Un’elaborata struttura dell’industria rock è in grado di confondere il musicista rock almeno quanto le opere secolari della Chiesa riescono a confondere il penitente. Nel mondo del rock si perdono grandi energie a circondare d’attenzioni il musicista e ad accreditarlo come la sorgente della musica. Ciò mette d’accordo tutte le parti, perché si appella alla vanità dell’artista, consentendo all’industria di manipolare qualsiasi artista chiuso in una bolla d’immagini fatue, e s’appella alla vanità dell’industria, d’essere in contatto con un così Grande Artista. Un rinforzo ulteriore viene dal pubblico. Per contrastare tutto ciò, occorre disciplina” (Robert Fripp: Creativity: finding the source – in Musician, n° 25 giugno-luglio 1980).



Il ritorno ad un gruppo ‘di prima divisione’ prenderà in prima istanza proprio il nome di Discipline con la precisazione che la “disciplina non è mai un fine in sé stessa, solo un mezzo per un fine”.

Bill Bruford passò i cinque anni successivi allo scioglimento del gruppo ad ampliare la propria esperienza: “un altro malinteso (…) è che tutti i musicisti vogliano rimanere in un gruppo per sempre: diventare ricchi, sciocchi, andare in pensione. Un background jazz come il mio suggerisce un processo diverso: ti unisci ad un gruppo e contribuisci come meglio puoi, e poi vai avanti per la tua strada se non hai più niente da offrire”.



Intanto Robert Fripp, dopo il suo ritiro, mosse discretamente i primi passi nel ‘coraggioso nuovo mondo’ musicale introdotto dall’amico produttore e ‘non musicista’ Brian Eno. Ma fu la scena musicale di New York e del CBGB di quegli anni a suggerire lo sviluppo di un nuovo vocabolario: “John e Bill non erano inclini verso lo spirito del punk/new wave. Io lo ero: non ebbi difficoltà a lavorare con Eno o i Blondie, per esempio. Se i Crimson avessero continuato, aldilà di altre considerazioni, sarebbero stati sempre meno al passo con le nuove correnti musicali che andavano sviluppandosi”.

“La gente viene da te e ti chiede se stai lavorando e, se no, ti invita a suonare. Era magico. Avevo un appartamento alla Bowery (…) C’era un’incredibile apertura il concerto di beneficenza per Johnny Blitz al CBGB’s fu un evento fantastico. Chris Stein [chitarrista dei Blondie], sai – [mi disse:] ‘stiamo facendo un concerto per Johnny Blitz; coinvolto in una rissa; ha bisogno di pagare gli avvocati; vuoi suonare con noi?’ Fu semplicemente così. Fu una notevole fioritura”.

Robert Fripp assorbì così il linguaggio della new wave e ritrovò una comunità che viveva la spontaneità creativa della gioventù degli esordi. Portato dall’amico Brian Eno a suonare nei dischi da lui prodotti di David Bowie e Talking Heads, vedrà alternare la sua presenza a quella di un altro chitarrista e cantante scoperto da Frank Zappa: Adrian Belew.

Belew meriterebbe un saggio approfondito che copra tutta la sua carriera: un autore con la vena melodica di Roy Orbinson, un senso della armonia dei Beatles e una costante ricerca timbrica che parte da dove era giunto Jimi Hendrix. Belew è un talento autoriale (anche il nostro Ivano Fossati farà una cover di una sua canzone), che spazierà dal pop alle asprezze della musica contemporanea; capace di estrarre melodie cantabili su basi musicali impossibili; con una capacità incredibile di adattarsi agli stili altrui, ma nello stesso tempo massimamente riconoscibile (dopo Bowie e i Talking Heads di Remain In Light, verrà richiesto da tutti gli artisti che volevano i suoni del futuro: Herbie Hancock, Ryuichi Sakamoto, Laurie Anderson, il Paul Simon di Graceland, Nine Inch Nails ecc.).

Ma soprattutto Adrian Belew è stato in tutti questi anni un instancabile ricercatore sempre teso ad andare oltre i risultati raggiunti.

Fripp vide Belew durante il tour di Bowie di Heroes e lo incontrò di persona ad un evento che potrebbe avere una forte valenza simbolica: un concerto del compositore minimalista contemporaneo noto per l’uso di tecniche di fase di strumenti che eseguono linee melodiche prima all’unisono e poi sfasate: Steve Reich.

Contattato Bruford, trovarono Tony Levin: “Tony ha suonato praticamente con chiunque, ma conserva ancora un senso infantile della scoperta, quella cosa che tutti noi cerchiamo di tenerci cara, con scarsi risultati” dice di lui Bill Bruford nella propria autobiografia.

Questo nuovo gruppo, inizialmente chiamato Discipline, richiederà un cambio di prospettiva di tutti i membri, come ricorda Bruford: “Robert spese i precedenti sette anni, o buona parte di quelli, in New York, assorbendo un gran numero di influenze diverse dalle mie. Ci fu l’intero affare intorno alla musica new wave nei loft di NY e l’inizio della world music. Ci furono anche tutte quelle cose con David Bowie, Brian Eno, David Byrne e Steve Reich che giravano nella testa di Robert più che nella mia. Così dovetti spingermi oltre per raggiungere Robert. Infatti mi fu data una lista da leggere”: erano i concetti attorno a cui creare la nuova musica e consisteva in un decalogo di massime di questo tenore:

ogni soluzione esistente ad un problema è sbagliata: assoluto, obsoleto; il massimo di tensione che puoi aggiungere è fermarti completamente; lascia spazio; se la parte che stai suonando ti annoia ascolta l’interazione tra le parti; se ancora ti annoia smetti di suonare e aspetta fino a quando non sarai più annoiato; sviluppa un nuovo vocabolario; non essere drammatico; nascondi te stesso…

La grandezza dell’esordio di questa formazione non risiede solo in una sintesi delle nuove tendenze, quanto un radicale ripensamento dell’approccio musicale. Questo renderà questa formazione, come le precedenti, calata nella propria epoca e, nello stesso tempo, un corpo estraneo a cui molti guarderanno.

“Credevo che la sua idea di gamelan metallico come nuovo punto di partenza per i King Crimson degli anni Ottanta fosse un’idea brillante e lo credevo per molte ragioni, non ultima il fatto che in questo modo Robert poteva cominciare a suonare all’inizio e smettere di farlo alla fine, senza nessun bisogno di una digressione ritmica nel mezzo. Intanto la batteria era libera di entrare e uscire. (…) lui dava continuità. Come succede alla mano destra di un batterista sul piatto: la fai partire e poi te ne dimentichi”. (Bill Bruford)

Per questa nuova musica la ‘sezione ritmica’ non avrà più quindi l’onere di dare il tempo. Infatti, se Tony Levin fornisce sempre ottimi groove di basso, in questo caso il basso/stick ricoprirà un ruolo anche lirico su cui si appoggerà la voce.

Il crescente interesse verso la world music, non aggiunge semplicemente sonorità esotiche, ma accoglie la concezione della musica collettiva come un risultato complesso di sovrapposizioni di parti semplici, ma indispensabili per il risultato collettivo.

“i compositori occidentali, (…) avevano scoperto l’esistenza di un diverso atteggiamento verso il ritmo e il tempo e verso la funzione stessa della musica: un atteggiamento molto vicino a quello dei popoli come i chopi del Mozambico o i giavanesi e i balinesi, per fare un esempio, i King Crimson avevano ottime possibilità per trasferire alcune di queste idee dal mondo artistico di New York City agli stadi rock”. (Bill Bruford)

La strumentazione invece, da una parte, rimane ancorata alla più classica rock band: voce, due chitarre, basso e batteria, dall’altra esplora possibilità timbriche inedite: Tony Levin suonerà il Chapman Stick all’epoca ancora poco conosciuto, Bill Bruford esplorerà le possibilità delle nuove batterie elettroniche della Simmons, Robert Fripp porterà in dote lo studio di scale inusuali e le sinth guitar della Roland, Adrian Belew spingerà al massimo la sua ricerca timbrica.

“Adrian sente che questa band lo sta spingendo al limite delle sue possibilità. Lavorare con i Talking Heads iniziò il processo, questa band lo sta spingendo oltre. Non pensava di essere pronto. Ma se Adrian avesse saputo cosa stava facendo, avrebbe utilizzato soluzioni per vecchi problemi, perciò inutili per noi. Bill è proprio al punto giusto per la band e io ho speso sette anni per essere pronto. Tony è sempre pronto: sembra non avere le nostre preoccupazioni”. (diario Robert Fripp 28 aprile 1981)

“Sembravano tutte quante idee insolite ed eccitanti, e poi potevamo contare su un’intera generazione di strumenti per riformularle e adattarle a un contesto rock: guitar sinth, batterie elettroniche, lo stick, il nuovissimo Musical Instrument Digital Interface o MIDI, che permetteva alle tastiere di interagire con le chitarre: c’erano tutti ed erano lì per noi”. (Bill Bruford)

Questi elementi renderanno questi dischi fuori dal tempo.

Anche la famosa frase di Ian Mc Donald che se suoni in un gruppo con Fripp, non suoni la chitarra, è solo parzialmente smentita dalla presenza di Belew, in quanto, se da una parte le chitarre per lunghi tratti serviranno a realizzare quel contrappunto intrecciato che costituirà il marchio di fabbrica della nuova musica, dall’altra costituiranno realmente due strumenti con ruoli e timbri completamente diversi.

L’album conterrà sette brani: come nella maggior parte delle opere di Robert Fripp e dei King Crimson si snoda un percorso di presentazione e accumulo di contraddizioni, e il tentativo di trovare una strada per uscirne. C’è sempre una lotta, un dramma, un dibattersi: alle volte arriva ad un esito positivo altre volte no.

Il biglietto da visita alle orecchie dell’ascoltatore è:

Elephant Talk: il veloce arpeggio su stick introduce al riff funk con cui verrà sempre identificata la canzone, poi parte il parlato di Belew e a questo punto i vecchi fan avranno capito che non riavranno più le atmosfere di mellotron e il lirismo della voce di John Wetton; Fripp si unisce con una frase che è una sintesi dell’idea di ripetizione nel rock e nella musica minimalista. Le chiacchiere d’elefante sono una descrizione del vecchio mondo dei ‘dinosauri’ dell’industria discografica a cui si contrappone la filosofia di Fripp, che teorizza un ruolo dell’artista come “piccola unità mobile ed intelligente” per salvare la spontaneità e l’ispirazione artistica. Adrian Belew, declama una lista di parole descrittive di questo mondo usando quelle che iniziano con la lettera A nella prima strofa, B nella seconda ecc.  il colpo di scena per l’ascoltatore è proprio un barrito di elefante che Belew riproduce con la sua chitarra; tra una strofa e l’altra si inseriscono brevissimi assoli belewiani e uno di Fripp che per l’occasione riesce a riprodurre lo squittio di un topolino: si potrebbe interpretare come il piccolo topolino che, non rinunciando al proprio giudizio e pensiero, mette in crisi l’elefante dell’apparato, creando spazi di creatività.

Frame By Frame: il secondo brano continua la descrizione dello smarrimento del soggetto, che passo dopo passo annega nelle proprie analisi. Musicalmente è un manifesto d’intenti. Il brano consiste in due sezioni alternate. Nella prima sezione strumentale Fripp ripete per tutta la sua durata la frase di chitarra proveniente dal suo brano ‘The Zero Of Signified’ dove proprio rifletteva come la ripetizione di una frase all’infinito ne fa perdere ogni significato; durante la seconda sezione delle strofe le due chitarre eseguono quell’intreccio di frasi spezzate e sfasate ripreso da Steve Reich, mentre Levin sostiene con il basso e la seconda voce il cantato. Il brano è un manifesto della nuova fase e verrà ripreso dal pianista jazz Stefano Bollani.

Matte Kudasai: qui il tema è la nostalgia di casa del “musicista errante” costretto a passare lunghe ore della propria giornata in attesa nelle sale d’attesa degli aeroporti e stanze d’albergo. Il titolo infatti è la frase più ricorrente durante i tour in giappone e traducibile con un: “attendere prego”. La atmosfera evocata è infatti esotica grazie all’imitazione dei gabbiani. Belew canta sentimentale l’attesa della amata nella sua triste America: si addormenta sulla sedia mentre aspetta il suo ritorno. Questo brano verrà cantato anni dopo anche da k.d.lang come omaggio a questo disco. Se la disciplina a cui si riferisce Fripp è quello strumento affinché la tensione verso il nuovo non venga meno, il suo opposto è l’indisciplina: continui ripensamenti, slanci e frenate, fissazione e rapidi moti casuali. L’esplosione delle contraddizioni. Tutto ciò sarà il clima di

Indiscipline: il brano nasce da un’idea su cui già “I Bruford” stavano lavorando prima di sciogliersi: lo stick avanza minaccioso con una pulsazione irregolare, mentre Bruford si lancia con la batteria in figure ritmiche  ‘indisciplinate’ fino a sfociare in quel peculiare heavy metal proprio dei King Crimson. Ovviamente un heavy metal in cinque quarti. Il testo recitato viene preso da una lettera della moglie del cantante sulle proprie sensazioni dopo aver dipinto un quadro. In questo contesto diventa il cedimento ad un’ossessione, alla fascinazione ipnotica di un invisibile buco nero che catturerà l’attenzione del soggetto nella propria orbita, un’orbita da cui non potrà più sfuggire. Assieme al precedente, il brano successivo è quello che più si inscrive nel solco della tradizione rock con un robusto riff di basso e la descrizione di un agguato nella giungla urbana,

Thela Hun Ginjeet è infatti l’anagramma dal suono africano di Heat In The Jungle Street. Con tutto il processo di civilizzazione il rapporto tra gli uomini rimane violento: un posto pericoloso. La parte vocale delle strofe è il racconto del cantante ancora sotto shock della sua disavventura con una gang di strada fuori dallo studio di registrazione: un posto pericoloso! Musicalmente il riff spezzato di Fripp si sovrappone a quello del basso di Levin, Bruford sostiene il ritmo con un drumming tribale, mentre la chitarra di Belew si lancia a capofitto in un campionario di effetti senza ritorno: feedback, ululati di chitarra distorta, abbaìi di cani e suoni da giungla. Le parti del racconto sono intervallate da un ritornello che mostra la capacità di Belew di estrarre melodie da qualsiasi situazione: una melodia dolce insinuata dall’angoscia per questo personaggio troppo tenero per un mondo così violento. Tutta questa tensione accumulata viene rilasciata con il penultimo brano: lo strumentale

The Sheltering Sky: “Il cielo protettivo” del titolo fa riferimento all’omonimo romanzo (in Italia “Il the nel deserto”). È forse il brano più facilmente identificabile nei suoi riferimenti etnici grazie all’uso della percussione africana da parte di Bruford; Belew crea un giro di chitarra ipnotico, Levin interviene a tratti sulle note basse. Viene così creato un climax rilassato su cui si snoda la melodia un po’ arabeggiante di Fripp. Come un viaggio nel deserto, lontano dalle contraddizioni del mondo, l’ascoltatore si perde in questo paesaggio sonoro che calma gli animi. Uno stato di grazia sopra le contraddizioni del mondo. Una musica che, durante una delle prime prove, “apparve all’improvviso, proprio fuori dall’aria”, così come era capitato con Trio nell’autunno 1973. Momenti come questi sono alla base della convinzione di Fripp che la musica abbia una sua oggettivà propria e in certi momenti si manifesti a musicisti.

Conclude il disco la title track

Discipline

Se Frame By Frame è il manifesto della tecnica reichiana applicata ad una canzone, questo brano è la sua forma strumentale compiuta. Il risultato di questa disciplina nell’integrarsi ognuno con gli altri è una gioiosa danza liberatoria di cinque minuti e dieci secondi: qualche volta la lotta per mantenere integra la propria umanità finisce bene e se ne può godere un frutto.

“Le parti di ognuno si intrecciano fra loro, mutando il tessuto lentamente e impercettibilmente. All’orecchio dell’ascoltatore superficiale sembra che non succeda nulla. Ma ascoltando attentamente si percepisce un’esecuzione dai tratti essenziali, eppure densa di particolari, con diversi cicli di note di chitarra prima simultanei poi fuori fase, capaci di intrecciarsi fra di loro e di dilatarsi nel tempo. Siamo in presenza di un modo di suonare deliberatamente senza tempo, che invece ne richiede un’attenzione straordinaria. Ci sono rotelle contro rotelle, come un ingranaggio, c’è un ritmo all’interno di altri ritmi, un ciclo di note finisce e subito dopo ricomincia. Con ogni probabilità, il pezzo che si intitola Discipline è quanto di più prossimo a una sintesi di minimalismo e attitudini non europee realizzata da un gruppo rock dell’epoca. (…) quando suonavamo bene, allora era come disegnare cerchi in aria con un piumino di quelli per fare la polvere, una specie di gioco da bambini che non richiedeva sforzi e che ti faceva stare benissimo. È in nome di questi momenti che la gente come me fa il lavoro che fa, è questo ciò che facciamo veramente. Tutte le ore passate a provare e a sudare acquistano il giusto significato durante questi attimi di piacere puro”.

(Bill Bruford: autobiografia alla batteria)