Scrive Bruce Springsteen, nella sua autobiografia, a proposito della composizione dei brani dell’album Nebraska: “Volevo costruire dei tenebrosi racconti della buonanotte, stile John Lee Hooker e Robert Johnson, musica da sentire a luci spente. Volevo che l’ascoltatore percepisse i pensieri dei personaggi, le loro scelte. Volevo che la musica sembrasse un sogno ad occhi aperti e si muovesse come poesia. Volevo canzoni che apparissero intimamente profetiche e sinistre”. Ecco. Forse si potrebbe partire da qui, per meglio comprendere I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, il disco d’esordio dei King Hannah, ossia il duo composto dai giovani Hannah Merrick e Craig Whittle. Partire, cioè, non dai brani dell’album, ma dalla loro cover di State Trooper, pubblicata lo scorso anno e che riesce a trasmettere tutto ciò di cui parla Springsteen, con, in aggiunta, una sorta di empatia che, grazie alla voce magnetica di Hannah, si sviluppa mano a mano che si dipana il racconto del personaggio in viaggio lungo l’autostrada del New Jersey. Partire da qui per iniziare ad entrare in un’attitudine non solo sonora, scoprendo, ad esempio, che Badlands, il film del 1973 diretto da Terence Malick ed ispirato alla storia vera di una coppia di giovani in fuga dopo una serie di omicidi e che sottende la scrittura di Bruce è anche uno dei preferiti di Craig, che ha recentemente dichiarato il suo amore per molti film girati tra gli anni ‘60 e ‘70 e per le colonne sonore in genere, come a dire che le liriche e gli arrangiamenti dei brani dei King Hannah hanno a che fare innanzitutto con una sonorità cinematografica, molto più vicina agli orizzonti ed alla foschia del genere Americana che a quella Liverpool che è città d’origine di Hannah e Craig.
Loro stessi, a conferma di ciò, dichiarano di non sentirsi parte di nessuna scena musicale in particolare, ma di avere interesse semplicemente nello sviluppare il loro suono, pur consci delle proprie influenze musicali che riguardano artisti come PJ Harvey, Courtney Barnett, Bill Callahan, Mazzy Star, i Portishead, coi quali condividono alcune affinità sonore, e in generale la musica degli anni novanta. Musica, quella dei King Hannah, da sentire dunque “a luci spente”, di notte, lungo il rettilineo di una strada poco trafficata. Musica lenta, ipnotica ed avvolgente, ma pronta ad improvvise accelerazioni chitarristiche, allo stesso tempo melodiche quanto tenebrose e psichedeliche. Ed una dozzina di canzoni, quelle di questo loro primo disco, colme – come recita l’etichetta appiccicata sulla copertina del cd – “di oscurità e spirito, allo stesso tempo emozionanti ed affascinanti”.
Subito osannati da The Guardian, nel 2020, dopo il loro EP di debutto – Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine – i King Hannah nascono come un duo qualunque di belle speranze, un ragazzo e una ragazza che s’incontrano per caso, camerieri nello stesso ristorante, ma che, al termine del lavoro si ritrovano l’uno di fronte all’altra a parlare della comune passione per la musica. Craig ha già visto Hannah cantare, anni prima, durante una serata musicale universitaria e non l’ha più dimenticata, così il passo è breve e la band nasce in un battibaleno. Poi arriva il Covid ed il lockdown li isola, allontanandoli dalla musica dal vivo. Ma “è stato un bene – confessa Craig – perché abbiamo avuto tempo per concentrarci sulla scrittura del disco e ciò ci ha consentito di crescere musicalmente”. Un tempo d’introspezione e di silenzio, dunque, che forse ha permesso alla loro musica di essere ancora più profonda ed incisiva.
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, in effetti, è un disco incredibilmente intenso, che non può lasciare indifferenti, seppure inciso con una band essenziale: oltre ad Hannah, voce, e Craig, chitarra, troviamo, non sempre tutti insieme, Ted White, ai sintetizzatori, Jake Lipiec alla batteria e Olly Gorman al basso. I testi seguono di pari passo la musica: poche parole che pennellano i suoni senza soverchiarli. Alla domanda se vi sia un tema comune, nei contenuti delle canzoni, Hannah risponde negativamente: “c’è un vago sentore di nostalgia e sentimento, ed alcuni brani narrano dell’infanzia e dei ricordi che scaldano il nostro cuore, ma non ci sono argomenti dominanti”. Non rimane, dunque, che percorrere ad uno ad uno i brani dell’album e lasciare che il viaggio abbia inizio lasciando libero spazio alla fantasia.
Il brano d’apertura – A Well-Made Woman – è uno dei preferiti di Hannah – “è così oscuro e suona come se fosse uscito dagli anni novanta!”, dichiara – ed è certamente autobiografico: “Ero una cantante di giorno / ed una barista di notte / ed ho lavorato a lungo / Sono una donna / una donna ben fatta / un tipo coraggioso”, canta la Merrick su un ritmo subito incalzante. So Much Water So Close To Drone è un breve ed ossessivo strumentale che introduce All Being Fine, dove il basso, il drumming e quel verso ripetuto – All Being Fine – sembrano chiederci se davvero stia andando tutto bene. Big Big Baby aumenta i nostri dubbi: “I can’t explain / you were a pain pain pain pain”. La voce di Hannah è dolcemente disperata, il testo parla di un amore di coppia trasformatosi in odio e qua e là, musicalmente, sembra di cogliere echi dei Joy Division. Ants Crawling On An Appe Store, voce e chitarra di Craig, con piano e sintetizzatore solo in sottofondo richiama il Jeff Tweedy e i Wilco dei tempi migliori, mentre il testo sembra guardare indietro a ferite e rimpianti, seppur si tratti di una giovinezza non così lontana. The Moods That I Get In è il capolavoro del disco e chiude il lato A. Magico ed avvolgente nei primi minuti, con la voce di Hannah e la chitarra di Craig che corteggiano lo stile dei primi Delines, si trasforma nella seconda metà del brano, dove la chitarra, da psichedelica, si fa sempre più melodica e struggente per una canzone che potrebbe durare tutta la notte, in attesa di un’alba che potremmo non desiderare di veder sorgere così presto. La seconda facciata – sì, perché esistono ancora dischi che vengono pensati con un lato A ed un lato B – si apre con Foolious Cesar. “I’m a fool for loving you” è la strofa ripetuta più e più volte e la musica è di nuovo ossessiva e piena di fantasmi. Death Of The House Phone è ancora un brano strumentale. Dolce e melodico, sembra uscire da un disco di Nick Cave in uno di quei rari momenti in cui l’autore parrebbe in grado di risorgere dagli inferi a caccia del suo perenne desiderio di redenzione, entrando poi in maniera naturale in Go-Kart Kid, uno dei brani più orecchiabili e divertenti del disco, con quei cori – Hell No!, Hell Yeah! – ripetuti spesso a punteggiare le strofe.
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, la title track è, insieme a The Moods, l’altro piccolo gioiello del disco. Sorta di brano post-punk, nella voce di Hannah e nell’attitudine del testo, sembra voler dire: non giudicate il nostro malessere, non chiedete a noi il perché di quel che siamo. Berenson, quasi sinfonica, è ancora strumentale, ed introduce all’ultimo brano del disco – It’s Me And You Kid – dall’inizio sommesso, voce e chitarra acustica low-fi, ma destinato ad esplodere rapidamente in un wall of sound degno del grunge dei tempi d’oro, ma che porta con sé segni di speranza, come una promessa per il futuro: “Ringrazio Dio, il giorno in cui ci siamo incontrati / Lo stiamo facendo / Possiamo vivere tutta la nostra vita / Siamo io e te, ragazzo”.
Il primo disco dei King Hannah è una delle più belle soprese di questo 2022 e sarà piacevole verificare la potenzialità espressiva di questi brani anche dal vivo, alla vigilia di un imminente tour europeo che toccherà anche un paio di città in Italia. Intanto godiamoci l’intensità dei brani di un disco che, coi suoi testi e le sue sonorità pare volerci interrogare fin giù nel profondo dei nostri cuori, chiedendo al silenzio di farsi strada tra le urla che troppo spesso straziano questa nostra vita. In The Moods That I Get In, un brano che sembra raccontare quanto sia difficile dialogare tra anime ferite e diverse tra loro, c’è una strofa che sembra fatta apposta per questi tempi ancora tristemente afflitti da guerra e malattie: “And if you do not like / what I’m singing about / well then you really do not have to listen / you can just turn me off”. Come a dire che è molto più facile facile spegnere l’interruttore che affrontare la fatica del dialogo. Eppure, lo sappiamo bene, la sola alternativa, per questo nostro mondo, è chiudere la porta all’odio ed aprire le braccia all’amore ed al perdono: in fondo “siamo sempre solo io e te, ragazzo” , il nostro vero io altro non è se non un tu. E allora perché non provare a costruire il futuro proprio a partire dalle nostre ferite?