«Non si può morire così»: è qualcosa che a molti di noi nel mondo è sgorgato dentro il cuore nell’apprendere la notizia della morte di Kobe Bryant, della figlia Gianna Maria e di altre 7 persone loro amiche. Un incidente assurdo e quella sensazione di estrema “caducità” di un destino misterioso che da un punto all’altro può decidere di privarci di uno dei più grande campioni Nba della storia ma soprattutto di un personaggio iconico molto più di quanto viene giustamente celebrato. In pochissimi sanno che l’ex Lakers era un uomo di fede cattolica e con la sua famiglia, come milioni di altre nel mondo, seguivano la Santa Messa ogni settimana, fino a quell’ultima tragica mattina di domenica scorsa. Non è un dettaglio “di cronaca” ininfluente come si potrebbe pensare, o peggio, un vezzo per poter dire «vedi, anche Kobe era credente» o cose simili: è un dato, da registrare, nella mattina in cui la tragedia stava per presentarsi nel destino dei Bryant, Kobe e l’amata figlia 13enne Gianna Maria Onore si erano recati della chiesa di Nostra Signora Regina degli Angeli a Newport Beach. Hanno ricevuto l’Eucaristia e si sono poi diretti con gli altri amici su quel dannato elicottero. Dai gravi problemi familiari avuti in passato – rivangati indegnamente in queste ore da attacchi social che lo identificano come uno “stupratore” (quando le accuse, poi ritirate, di una cameriera nel 2003 lo avevano portato ad un processo mondiale e alle soglie del divorzio) – fino agli ultimi anni in Nba, qualcosa in Kobe Bryant era cambiato: sempre ossessivo nel suo lavoro, sempre convinto che l’uomo le risorse le può ritrovare dentro se stesso, eppure grato a Dio per averli “donato” un insospettabile amico, un’inattesa salvezza.



LA FEDE DI KOBE BRYANT (E DELLA FAMIGLIA)

«Avevo paura di andare in prigione? Sì. Amico, avevo 25 anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha davvero aiutato in quel processo – sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei bambini sono cattolici – è stata parlare con un prete. In realtà è stato in qualche modo divertente», racconta Kobe Bryant in una lontana intervista del 2015 a GQ, ricordando i momenti bui del processo e del possibile divorzio dalla moglie Vanessa. «Lui mi guarda e dice: “L’hai fatto?”. E io dico: “Certo che no”. Poi chiede: “Hai un buon avvocato?”. E io: “Oh, sì, è fenomenale”. Allora lui mi disse solo: “Lascia correre, vai avanti. Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora questo è nelle Sue mani. Questo non è qualcosa che tu puoi controllare, quindi lascia correre». È lì, nell’incontro con un prete che per una volta va oltre lo status di “leggenda” che ha sempre rivestito l’erede di Michael Jordan, che qualcosa cambia, che la sua vita prende una piega del tutto inattesa (e sconosciuta ai mass media): con la moglie hanno fondato la Kobe and Vanessa Bryant Family Foundation (KVBFF), dedicandosi ad aiutare i giovani in difficoltà, a incoraggiare lo sviluppo delle capacità fisiche e sociali attraverso lo sport e ad assistere i senzatetto. Il tutto nato dal dramma del divorzio emerso dopo che Bryant ammise in pubblico che quello della cameriera non fu stupro, ma un tradimento del talamo nuziale. Si è sempre detto dispiaciuto e con profonda vergogna di quanto fatto, con quasi tutti che lo mollarono dagli sponsor agli amici: la fede cattolica era rimasta in secondo piano fino a quel punto, quando il bisogno dell’uomo Kobe si è fatto gigante.

LA SANTA MESSA E IL SENSO DEL DESTINO

Inizia un lungo rapporto di scambio e riflessione con la moglie fino al tentativo, poi riuscito, di ricominciare tutto da capo: «Non ho intenzione di dire che il nostro matrimonio è perfetto […]. Noi lottiamo ancora, proprio come ogni coppia sposata. Ma sai, la mia reputazione di atleta è che sono estremamente determinato e che mi faccio un mazzo così. Come potrei farlo nella mia vita professionale se non fossi così nella mia vita personale, quando questa colpisce i miei figli? Non avrebbe alcun senso» spiegava l’ex Lakers scomparso a 41 anni. Una famiglia poi cresciuta nell’amore per Cristo e nella dedizione per l’altro, anche nel silenzio e senza grandi proclami di “beneficienza”: «Devo fare qualcosa che abbia un po’ più di peso, un po’ più di significato, un po’ più di scopo», raccontava in una breve intervista nel 2012. Come racconta un bel approfondimento della Nuova Bussola Quotidiana, la cantante Cristina Ballestero in queste ore ha spiegato come i Bryant erano soliti andare nella parrocchia di Orange County per la Santa Messa e per la preghiera: «stava in fondo alla chiesa, come d’abitudine, per non distogliere l’attenzione dei parrocchiani da Gesù». Il parroco ha scritto in questi giorni che proprio quella mattina prima dell’incidente Kobe e Gianna Maria Bryant si sono diretti alla Messa per ricevere Gesù: un gesto “normale” eppure ormai “fuori dal tempo” specie per il mondo dello star system di Hollywood . La fortuna, i soldi e la fama: eppure Kobe aveva scoperto che tutto quello, senza un senso ultimo alla propria esistenza e a quella delle sue amate “donne di casa”, era tutto inutile. E allora, forse, davanti a quel “non si può morire così” sarebbe stato lo stesso Kobe a rimproverarci anche duramente come faceva in campo contro Odom o Vujacic: «Dio esiste, lavorate duro e vivete ogni giorno come se fosse l’ultimo». Lui e Gianna Maria ce lo hanno testimoniato.

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