Se ne va all’improvviso, come improvvisamente era comparso, ossessionato da quell’unico grande amore che lo aveva reso così incredibile, così vero. Kobe Bryant, 41 anni, leggenda del basket americano, è morto in un incidente in elicottero insieme ad una delle sue figlie, Gianna Maria, di 13 anni; sulle dinamiche dell’incidente la polizia californiana – in servizio nel teatro della tragedia – sta tutt’ora indagando cercando di rispondere a tutte le domande che la moglie e gli altri due figli rimasti stanno ponendosi in queste drammatiche ore.



Una carriera giocata tra l’Italia e gli Usa, stella dell’Nba dei mitici “Lakers”, Black Mamba – così era soprannominato – aveva vinto tutto con un appetito e una personalità da campione, sedendo ad un tavolo dove solo Michael Jordan ieri e James LeBron oggi sembrano poter stare. Celebre il suo ritiro dalle gare, avvenuto ormai più di quattro anni fa, dove Bryant scrisse una commovente lettera al basket che fu spunto di un cortometraggio poi premiato addirittura con un premio Oscar.

In quella lettera Bryant, modello e ispirazione per tanti campioni e campioncini, si rivolgeva al basket come ad un Tu che lo aveva innamorato e travolto in una passione senza tempo, diventando il terreno e lo spazio dove potersi giocare tutta la vita. Non era uomo dalle mezze misure e aveva chiaro che nella vita non basta nascere, vivere e riprodursi per portare a compimento il compito dell’esistenza, ma occorre un luogo, un tempo, una realtà, a cui darsi e con cui compromettersi. Per Bryant il basket era diventato l’antidoto ad ogni nichilismo al punto che chiunque guardava una sua partita aveva chiaro – in quella sua ossessiva fame di vincere e di star dietro alla palla – che lui stava cambiando il basket perché il basket stava cambiando lui: non era una competizione o uno spettacolo quello che ti ipnotizzava di lui, quanto la percezione che in quei pochi metri di campo chiunque poteva essere introdotto in un rapporto che rendeva la vita – anche fuori dal campo – più seria e più autentica.

Ci sarà spazio nei prossimi giorni per guardare con più contezza questa tragedia o per commentare questa sua impressionante carriera che ancora oggi giganteggia nel mondo dello sport. Quello che si percepisce oggi è una vita compiuta, rapita da una forza misteriosa che rendeva Kobe diverso da tutti e che, in una domenica di gennaio, l’ha preso con sé. A far giocare gli Angeli dopo aver giocato per una vita nella loro città. Anche questa ironia del destino. O forse solo semplice strada per una vita più piena. E più lieta.