Quando mi hanno chiesto di scrivere un pezzo in ricordo di Kobe Bryant, ammetto di avere avuto parecchie difficoltà. Non è mai facile o banale parlare della morte, è impresa complessa raccontare in poche righe un personaggio famoso come lui ed è sostanzialmente impossibile tracciare il profilo di quello che personalmente è stato un idolo di gioventù. Se sei un appassionato di basket, Kobe Bryant è stato senza ombra di dubbio un simbolo e un esempio; se poi ti è anche capitato – o hai scelto – di tifare per i Los Angeles Lakers, allora Kobe è stato qualcosa di più. Sarebbe inutile parlare dei numeri, dei trofei, dei cinque titoli o della partita da 81 punti; quelli li trovate ovunque, così come gli aneddoti che oggi tornano prepotenti a dirci dell’etica del lavoro di un giocatore che non si è mai tirato indietro nella voglia di migliorarsi, di essere il migliore, di dimostrare di poter fare qualunque cosa. A cominciare dal numero di maglia, quando abbandonò la 8 del Threepeat per vestire la 24. Come dire: dopo Michael Jordan vengo io. Beh, senza timore di essere smentiti è probabilmente così; ma anche questo è un esercizio superfluo e se vogliamo ridondante, perchè ognuno ha avuto il suo giocatore preferito e ciascuno di noi risponderà con un nome diverso alla domanda su chi sia stato il più grande. Però, per quelli della mia generazione, Kobe Bryant è stato un esempio; i suoi anni in Italia, le sue interviste nella nostra lingua (parlata alla perfezione), ce lo hanno reso più vicino di quando galleggiava sui parquet di tutti gli Stati Uniti, segnava da ogni posizione, apostrofava qualche compagno dicendogli “segna, st***” (a Sasha Vujacic, appunto in italiano, in quella famosa finale contro i Boston Celtics).



KOBE BRYANT E’ MORTO: IL RICORDO DI UNA LEGGENDA

Kobe Bryant è morto: niente ce lo darà indietro su questa terra, oggi possiamo solo ricordare la leggenda del primo giocatore di sempre ad avere due maglie che pendono dal soffitto del suo palazzetto. Per chi è nato con il poster appeso in camera (ancora della sua prima stagione, quando era un ragazzino neo maggiorenne che si affacciava nella NBA), per me, la partita simbolo resterà per sempre quella gara-7 delle finali di Conference, nel 2000: lanciati verso il primo titolo, i Lakers di Bryant e Shaquille O’Neal erano finiti sotto di 15 punti, a 10 minuti dall’ultima sirena, contro la Portland di Damon Stoudamire, Steve Smith, Scottie Pippen e Rasheed Wallace. Alla fine vinsero: Bryant mise a referto 25 punti, 11 rimbalzi, 7 assist e 4 stoppate con due sole palle perse. Fu la sua consacrazione: da quel momento in avanti, ogni sua impresa è stata quasi derubricata alla normalità. La sua ultima partita, contro Utah in un contesto ben diverso (Los Angeles era già eliminata dalla corsa ai playoff): 60 punti quando Shaq lo aveva sfidato a metterne 50, vinta da solo come tante, tantissime volte gli era capitato. I due titoli con Pau Gasol, a rispondere a chi lo aveva sempre accusato di non poter vincere senza O’Neal. I canestri in faccia a Grant Hill, le battaglie con Phoenix e San Antonio, il rispetto dei grandi avversari. Fino a quella lettera, Dear Basketball, che alla fine della storia ci dice tutto di lui (e che ha anche vinto un Oscar, sotto forma di cortometraggio): il profondo amore per il gioco che gli ha permesso di essere quello che è stato, perchè senza la passione e un rapporto viscerale con la realtà di tutti i giorni non si diventa Kobe Bryant. Oggi siamo noi a dire “caro basket, grazie per averci fatto vivere la leggenda di Kobe Bryant”: tutti prima o poi lasceremo questo mondo terreno, ma questa è una notizia che avremmo volentieri rimandato per tanti, tanti, tanti anni. E, sotto sotto, avremmo voluto non sentirla mai.

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