I 3400 posti a sedere del teatro erano tutti occupati. Kobe Briant era lì in settima fila a godersi lo spettacolo delle premiazioni che la tv americana ESPN aveva riservato quella domenica sera di luglio ai personaggi che si erano distinti nei vari campi dello sport della stagione 2005-2006.
Il pubblico aveva espresso nelle settimane precedenti i suoi gradimenti, più di 10 milioni di voti. E lui era finito nelle nominations per il premio “Best Moment”. In effetti segnare 81 punti in una sola gara e ribaltarla quando la tua squadra a metà tempo era sotto di 14 punti non poteva non accendere l’emotività della platea televisiva americana. Del resto solo una volta, nel 1962, qualcuno aveva fatto meglio nella storia della Nba.
Kobe Bryant non era accompagnato dalla moglie quella sera a Hollywood, Vanessa era rimasta a casa, doveva occuparsi di Gianna, nata due mesi prima. Col senno di poi fa impressione sapere che la rivale di Kobe per gli Espy Awards in quel teatro californiano era una ragazza tredicenne, Dakoda Dowd: 4 mesi prima era stata la più giovane atleta a partecipare a un torneo del circuito del golf professionistico realizzando il sogno della madre malata di cancro. Sarebbe morta l’anno dopo, ma intanto aveva visto con orgoglio sua figlia non solo gareggiare a un torneo da 2,5 milioni di dollari come il Ginn Open in Florida a fianco di professioniste affermate come Lorena Ochoa, ma addirittura fare un birdie alla prima buca!
A sorpresa però il conduttore della serata annuncia che il premio va a un terzo incomodo, seduto dall’altra parte della platea. Questi si alza di scatto urlando per la gioia e abbraccia i genitori che lo accompagnano, poi sale sul palco e ringrazia leggendo due righe di un foglietto incespicando più volte nelle parole. Kobe Bryant è in piedi ad applaudirlo con un sincero sorriso di soddisfazione. Chi l’ha battuto è un ragazzo autistico, Jason McElway.
Ha stregato tutti con un’impresa che solo nelle fiabe si può immaginare. L’allenatore di basket della sua scuola in un sobborgo di Rochester lo ha tenuto fuori squadra tutta la stagione, mai un minuto sul campo, ma quel giorno di febbraio 2006 con tutti gli studenti in palestra a scandire il suo nome e a ostentare la sua faccia sui cartelli, non può evitare di farlo entrare gli ultimi quattro minuti di gara tra l’entusiasmo generale.
I suoi compagni gli passano subito la palla, lui tenta un tiro da 3 e lo sbaglia. Nuova chance, sbaglia ancora. Non demordono, la danno sempre a lui e qui succede l’impensabile: nel giro di tre minuti J-Mac mette dentro sei tiri da 3 e uno da 2. Totale: 20 punti in meno di 3 minuti. Mai visto nulla di simile neanche in Nba. Invasione di campo, delirio collettivo, J-Mac portato in trionfo e la madre che se lo stringe al petto commossa.
Il filmetto amatoriale di quei minuti, riprodotto dalle grandi tv americane è diventato il “Best Moment” del 2006. Il grande Kobe Briant, che coi Los Angeles Lakers ha già vinto tre titoli Nba, lo va a cercare dietro le quinte del teatro Kodak. Vuole farsi fotografare con lui. Ha parole di stima e di incoraggiamento per un ragazzo a cui lo sport ha cambiato la vita e dato la spinta per superare i suoi limiti fisici e psichici.
Potete immaginare le emozioni di quel ragazzo nel trovarselo di fronte. Kobe Bryant poteva tirarsela come fanno i top players del calcio mondiale quando rinunciano a presenziare una premiazione appena sanno che non l’hanno vinta loro o mettono come condizione alla loro presenza che il premio se lo aggiudichino loro. No, Kobe era di un’altra pasta. Non considerava un danno d’immagine essere stato battuto da un ragazzino qualunque e lo ha dimostrato nell’entusiasmo con cui è andato a cercare dietro le quinte uno che gli ricordava come quel suo record di 81 punti fosse persino poca cosa rispetto ai 20 di un fratello minore che grazie a quei punti aveva ritrovato se stesso.