NEW YORK — Mi arriva un WhatsApp da nostro figlio che sta a Milano. “Hai visto che è morto Kobe Bryant?” Cosi viaggiano le notizie al giorno d’oggi, soprattutto quelle brutte. No, non avevo visto, la cosa mi prende di sorpresa come sempre accade quando c’è di mezzo qualcuno nel fiore degli anni. A maggior ragione quando si tratta di qualcuno cui il destino aveva riservato grandi cose.  Kobe Bryant, l’asso dei Los Angeles Lakers, per un ventennio uno degli indiscussi “padroni” del basketball mondiale, è precipitato con il suo elicottero sulle colline di Calabasas, una trentina di miglia a nord ovest della sconfinata metropoli californiana.



Poco più di quarantun anni, una moglie, quattro figlie e un pensionamento d’oro dal mondo agonistico iniziato appena dal 2016. Tragedia nella tragedia, con lui se ne sono andati altri 8 tra cui Gianna, tredici anni, la sua prima figlia, giovanissima promessa del basketball femminile.

Ancora non si sa nulla di cosa sia effettivamente successo. Tra i testimoni oculari c’è chi dice di aver sentito il motore dell’elicottero perder colpi, e poi visto il velivolo perdere quota, la caduta, l’impatto, le fiamme. Tutto bruciato in un attimo. Nessuna via di scampo per i cinque a bordo. Non sono serviti né i vent’anni di trionfale carriera Nba, né i cinque titoli conquistati, né le diciotto presenze nell’AllStar Team, e neanche quell’ultimo pensiero che avrà avuto – ne sono certo – mentre vedeva avvicinarsi il momento dello schianto: la mia vita per quella di mia figlia! Ma non funziona così.



Kobe è stato certamente un grandissimo giocatore ed un atleta immenso, finché il fisico lo ha sostenuto. Il soprannome che gli avevano affibbiato, “Black Mamba”, ci dipinge in qualche misura la rapidità fulminea delle sue esecuzioni, la flessuosità elegante dei movimenti – con e senza palla, per chi ha un’idea di cosa sia la pallacanestro. Un grandissimo, senza ombra di dubbio. Ma come tanti grandissimi, oltre a suscitare ammirazione Kobe poteva suscitare antipatia. Succede di provare antipatia per chi ha ricevuto un po’ troppo talento da madre natura. Non siamo così infantili, sciocchi ed irragionevoli da invidiare, così ci rifugiamo in un sentimento di antipatia.



Ma chissà cosa aveva nel cuore e nella mente quest’uomo che si muoveva per il campo da gioco con aria altezzosa, con un certo fare prepotente ed accentratore. Chissà cos’era veramente caro a questo giovane uomo nato a Philadelphia e che aveva vissuto la sua fanciullezza in Italia seguendo papà Joe, vecchio journeyman venuto a sparare le sue ultime cartucce da ex Nba nel campionato nostrano. Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia. Kobe, un ragazzino così bravo con quella palla a spicchi da passare direttamente dalla High School al mondo dei professionisti, saltando a pie’ pari gli anni di College.

Adesso Kobe non c’è più ed è inevitabile che lo si guardi con occhi diversi, è giusto che lo si guardi con occhi diversi. Anche lui si sarà guardato con occhi diversi in quei drammatici istanti in cui l’elicottero se ne cadeva giù. Tutti i trionfi, i momenti di gloria, i riconoscimenti ma anche gli errori, le meschinità, le miserie umane come quelle di tutti. E sopra tutto il resto, un lampo di coscienza che la vita è un dono e noi ne siamo i protagonisti, ma non i padroni.

Rest in peace, Kobe