Sono davvero pochi gli artisti che hanno cambiato e inventato un nuovo modo di scrivere canzoni, lasciando un segno così profondo che ha influenzato tutti coloro che sono venuti dopo di loro. Non ne nascono più perché tutto quello che c’è da dire è già stato detto, ma soprattutto perché nessuno, come quelli che li hanno preceduti, ha vissuto davvero quello che cantavano nelle loro canzoni. Era vita che si rifletteva nelle loro composizioni e se non hai vissuto una vita, spesso ai confini tra pazzia e sanità mentale, tra abusi e sconfitte, tra amori bruciati nel giro di una notte, tra desiderio di pienezza e ubriacature violente, tra morte e vita, in una parola, come disse lui in una sua canzone “a imparare a sconfiggere il diavolo”, di che vuoi cantare?



Una volta, Kris Kristofferson era presente a una grande celebrazione di un altro artista fuorilegge dell’industria musicale come lui, Willie Nelson. Si trovava dietro al palco quando arrivò la superstar del momento, accolta come un re. Passò davanti a Kristofferson lanciandogli uno sberleffo. “Non voltarmi le spalle, ragazzo”, gridò Kristofferson, fregandosene del fatto che praticamente l’intera industria musicale sembrava essere al suo fianco. La star si voltò: “Non voglio problemi, Kris, voglio solo che tu riduca i toni”.



“Hai mai indossato l’uniforme del tuo Paese?” chiese Kris retoricamente.

“Che cosa?” rispose l’altro.

“Ho chiesto: ‘Hai mai servito il tuo Paese?’ La risposta è no, non l’hai fatto. Hai mai ucciso un altro uomo? Hai mai tolto la vita a un altro uomo e poi hai incassato l’assegno che il tuo Paese ti ha dato per averlo fatto? No, non l’hai fatto. Quindi stai zitto!”.

Kris Kristofferson, morto a 88 anni di età, un volto scolpito nella roccia della storia americana come i Presidenti sul Monte Rushmore, sembrava fosse eterno. Sapeva quello che diceva quella sera perché lui, prima di sfondare come cantante, aveva servito nei Marines, pilota di elicottero, durante la guerra in Vietnam, era figlio di un generale, aveva visto i suoi compagni morire. Si dice che quando andò a cercare la leggenda del country Johnny Cash per fargli conoscere le sue canzoni, andò in elicottero sopra la sua residenza di campagna e gli lanciò le cassette con i suoi demo. Certo non avrebbe potuto passare inosservato. E Johnny Cash avrebbe inciso subito le sue canzoni.



Nella sua voce profonda e baritonale, a volte stentorea, ma autentica, nelle sue melodie scarne ma melodicamente ineccepibili, in quel lamento profondamente incardinato nella grande tradizione della musica popolare americana, nella capacità di raccogliere la torcia passata da altre anime dolenti come Hank Williams e Johnny Cash, Kris Kristofferson incarnava lo spirito americano più autentico, quello della working class. Di sé in una sua canzone una volta disse: “È una contraddizione vivente in parte verità e in parte finzione, Prende ogni direzione sbagliata nel suo solitario viaggio di ritorno a casa”.

Basterebbe il suo primo disco, una raccolta di canzoni ancora oggi irraggiungibile, per metterlo in quella grande storia.

Kristofferson sapeva declinare piccoli racconti letterari, degni di un romanzo o di un film, in modo che ti lacerava l’anima (si laureò all’università di Oxford in letteratura), facendo emergere tutto il male, il dolore, il desiderio di vita che anche tu ti porti dentro inconsciamente. Erano, i suoi, argomenti che non avevano mai trovato posto nella musica country americana, legata invece agli stereotipi più sentimentali. Di lui non a caso Bob Dylan disse: “Puoi guardare a una Nashville pre-Kris e una post-Kris, perché ha cambiato tutto”.

La fine del sogno hippie teneramente cantato nella celeberrima Me and Bobby McGee in cui quel sogno mostrava tutta la sua corruttibilità, (“Libertà è solo un modo come un altro per dire che non hai più niente da perdere e le uniche cose che hanno valore sono quelle gratis”); cantava i perdenti, quelli sul lato buio dell’industria musicale e aveva trovato il modo di battere il diavolo sbeffeggiandolo (“il vecchio era un estraneo, ma avevo già sentito la sua canzone Ai tempi in cui il fallimento mi chiudeva dalla parte sbagliata della porta Quando dietro di me non c’era nessuno tranne la mia ombra sul pavimento e la solitudine era più di uno stato d’animo Vedi, il diavolo perseguita un uomo affamato Se non vuoi unirti a lui, devi batterlo non dico di aver battuto il diavolo, ma ho bevuto la sua birra gratis poi gli ho rubato la sua canzone”; che non era solo una metafora ma anche l’inizio della sua lunga battaglia per sconfiggere l’alcolismo che lo stava davvero portando in braccio al diavolo); ha cantato la solitudine più assoluta con l’unica speranza di una donna che lo aiutasse a superare la notte, il momento peggiore dell’esistenza quando fantasmi e incubi sono la sola compagnia, in Help me make it through the night, ancora una volta sbeffeggiando l’incapacità umana di farcela da soli (“Ieri è morto e passato – grazie a Dio – e il domani non si vede ancora – grazie a Dio anche per questo: aiutami a superare la notte”). Il disco è una imperdibile rassegna di schizzi di vita quotidiana, quella della classe medio bassa a cui Kristofferson fu sempre al fianco, nonostante anche lui avesse toccato lo Stardom più grande (avvenne quando si diede anche al cinema, recitando in quel capolavoro, quello originale e autentico, non il banale remake di pochi ani fa, assieme a Barbra Streisand, È nata una stella, anche questa la storia di un perdente a cui non bastano i soldi, il successo, l’amore della sua donna, per riempire quel buco esistenziale che lo divora).

Ci sono ancora due episodi imperdibili in quel primo disco.

Il primo racconta l’agghiacciante solitudine di un uomo che si sveglia alla domenica mattina dopo aver bevuto, cantato e fumato tutta la notte. La prima cosa che fa alzandosi dal letto è bere un’altra birra. Poi barcollando esce per strada con la sua “più pulita camicia sporca” e si scontra con la tranquilla bellezza di una domenica mattina in città: un padre che gioca al parco con la figlioletta; il suono dei canti alla messa domenicale che lo attirano ad ascoltare; l’odore di pollo fritto che arriva dalle case dove le famigliole preparano il pranzo domenicale. Tutte cose dice, che anche lui aveva vissuto e adesso perso: “C’è qualcosa in una domenica che ti fa sentire completamente solo”. Chi non ha provato queste sensazioni?

Ancora di più, Casey’s last ride è un film, un romanzo, un quadro. Una malinconia impossibile da sostenere. Il protagonista “si unisce al suono ingannevole della gente silenziosa”, per le strade dove l’umanità si perde e disperde ogni giorno che Dio manda in terra e chissà quante storie dolorose ognuno si porta appresso.

C’è la sensazione che nessuna fuga dalle costrizioni della quotidianità sia possibile. “Nei corridoi bui al neon fatti di silente disperazione” si perde e si consuma questa umanità dolente. In mezzo, una storia né più né meno differente da tante altre. Kristofferson suggerisce qualche dettaglio, non dà tutti gli elementi: un uomo sposato che va a ritrovare l’amore che aveva avuto prima del matrimonio e che ancora rimpiange. O un uomo ancora sposato che non riesce a stare lontano dalla sua amante, come l’assassino che ritorna sempre sul luogo del delitto.

“Casey, è passato così tanto tempo, guarda ho messo un nuovo paio di calze per farti piacere, Dio ti prego Casey non puoi fermarti un poco?” Quelle calze le ho indossate per te, perché ti piacciono, perché ti piacevano. Perché io ti desidero così tanto, Casey, che farei qualunque cosa per farti restare da me. Il film, il romanzo, cambia scena: Casey fugge e si butta, come tutti gli uomini disperati di questo mondo, nel primo bar e beve. Per dimenticare il suo male e il male che semina intorno a sé: “Vede il suo riflesso nelle vite di tutti gli uomini soli che si attaccano a qualunque cosa pur di non tornare a casa”.

E lei: “Dio Casey, è così brutto essere soli”. Ma Casey che non è solo, e ancora più solo di lei.

Kristofferson resterà sempre legato all’immagine di Billy the Kid, il film western anti hollywoodiano in cui recitò la parte del protagonista. Resterà sempre legato ai perdenti, come quella volta che sul palco del Madison Square Garden di New York, alla celebrazione della carriera di Bob Dylan con tutte le più grandi star del mondo quando si avvicinò stringendola a Sinéad O’Connor fischiata e contestata dal pubblico liberal borghese della Grande Mela dicendole “Non lasciare che questi bastardi ti buttino giù”. Le avrebbe anche dedicato una canzone.

Il volto di Kris Kristofferson dovrebbe essere scolpito su un monte Rushmore alternativo, più vero e onesto di quello dei presidenti americani, insieme a Johnny Cash, Hank Williams e Willie Nelson. I volti dell’America vera, empatica, solidale, umana, comunitaria. È davvero difficile pensare a un mondo senza di lui.

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