La notizia non è granché, non raddrizza i conti davanti alle tragedie delle guerre in corso, sembra una povera cosa, ma ha una potenza simbolica che dice qualcosa di importante sul compito essenziale dell’Italia nel fragile assetto del mondo. Ci tocca difendere la presenza cristiana piccola ma decisiva dov’essa è minacciata. Non se ne preoccupa nessuno, non figura nell’agenda di G7 o G20. Be’, qualcuno ci richiama a qualcosa che è scritto nell’identità impressaci dalla sede di Pietro che non ci siamo meritati, ma sta lì, a Roma. Il Quo vadis? stavolta è rivolto ai nostri decisori politici dai capi di un popolo senza patria come i curdi. Dove andate? Restate qui.
Parliamo della richiesta dei curdi dell’Iraq al Governo e alla nostra opinione pubblica che il contingente militare italiano resti, e che i rapporti già in essere siano incrementati e parliamo di quelli culturali (la tutela e valorizzazione dei siti archeologici), commerciali, e di quella cosa che si chiama senso della vita, umanità comune.
Ecco il testo dell’agenzia Nova: “Nel Kurdistan iracheno ‘abbiamo bisogno che l’Esercito italiano rimanga e continui ad aiutare i peshmerga curdi al fine di portare alla sicurezza e garantirla’. Lo ha detto il ministro dell’Interno della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, Rebar Ahmed, durante un incontro con i giornalisti, alla presenza del comandante dell’operazione Prima Parthica, colonnello Francesco Antonio Serafini. Il ministro ha espresso un “grande ringraziamento all’esercito e al governo per il lavoro svolto anche a protezione della diga di Mosul”.
Cos’è questo Kurdistan iracheno nel contesto della storia di questi ultimi decenni? È la terra dove i cristiani caldei, siri, armeni e latini hanno trovato rifugio dal tentativo di eliminazione totale, molto più che persecuzione, ma disegno di azzeramento della loro esistenza in Iraq. Erano un milione prima che gli americani intraprendessero le loro invasioni sciagurate, trasformando le parrocchie e le chiese in hangar per carri armati, ritenendo di ridisegnare questa porzione d’Asia su base etnico-religiosa, e per i cristiani non era previsto alcun domicilio.
Nell’antica Mesopotamia quella cristiana è minoranza numerica, ma non è residuale, bensì coessenziale per costruire una pace durevole e una convivenza fraterna non solo in Iraq ma in ognuna di queste regioni. L’intervento occidentale, violento e irrazionale, ha creato la culla ideale per la nascita dell’Isis-Daesh e per porre il trono del potere degli sciiti militarizzati dall’Iran khomeinista, che ha costretto l’anno scorso il cardinale cattolico caldeo Louis Raphael Sako a rifugiarsi a Erbil in Kurdistan, da cui è rientrato due settimane fa a Baghdad, a costo di rimetterci la vita.
Non possiamo comportarci con i cristiani iracheni come con quelli dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh, abbandonati in balia di Turchia e Azerbaijan. Non possiamo essere un Paese che disloca semplicemente le sue risorse diplomatiche e militari per conformarsi al ruolo assegnato dalle strategie del Pentagono. Appartiene alla nostra storia repubblicana tutelare la presenza cristiana in Medio Oriente, e dovunque essa sia oppressa. Altrimenti che stiamo a fare nell’universo?
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