Claudio Damiani è tra i poeti italiani di oggi quello che sembra il più leggibile, ma come per tanti altri che l’hanno preceduto nella storia delle nostre lettere, la sua è una facilità difficile. Nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo, vive a Roma dall’infanzia, si è laureato in Lettere, insegna in una scuola media superiore e collabora a vari periodici, tra i quali Repubblica.
Una lirica tratta dalla raccolta La mia casa, pubblicata nel 1994 parla di una strada ben conosciuta e familiare, che diventa metafora della vita:
Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l’acqua
e diventi un ruscello.
I versi di Damiani comunicano una positività inconsueta, certo non dettata da un istintivo ottimismo. E’ quanto emerge da un’altra composizione della raccolta, in cui il tempo non è visto come nemico, ma come legame tra gli uomini, le cose e il loro destino:
Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
– ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno –
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.
Tra le numerose raccolte poetiche, Sognando Li Po, pubblicata da Marietti nel 2008, dà voce all’ ammirazione di Damiani per l’età d’oro della poesia cinese, fiorita tra il settimo e il decimo secolo dopo Cristo. La sua ricerca intreccia le suggestioni provenienti da quella antica civiltà con quelle trasmesse dagli elegiaci latini all’immaginario occidentale:
Lungo la strada le bacche autunnali
sono rimaste attaccate ai rami,
anche il mio corpo rimarrà attaccato alla terra,
non se ne vorrà andare.
Ascolto il canto degli uccelli,
sono con loro tra i rami,
la musica delle loro voci
è come un vino dolce.
Alzo il calice, brindo alla luna,
la guardo e il suo viso bianco m’acceca.
Lì c’è una casa, in quella distesa di neve,
distinguo il muro di calce bruciante.
Dal tetto esce un fumo a spirale,
dentro, nella sala, è apparecchiata la tavola,
il vino brilla nei bicchieri,
sul tavolo la minestra è ancora calda.
Damiani si sente erede di poeti novecenteschi come Saba, Penna e Caproni. Essi, come anche Ungaretti e Sbarbaro, hanno percorso la via della poesia come stupore piuttosto che camminare nel sentiero dominante che ha fatto dell’attività poetica l’indicazione dell’impotenza, dello smacco e del fallimento.
Per lui, come per Pascoli, la poesia allontana le cose vicine, per metterle a fuoco, per toglierle da quella eccessiva prossimità che le nasconde e avvicina le cose lontane, mettendole alla giusta distanza per poterle vedere. C’è però una differenza tra l’uomo comune, che tace quando si stupisce, e il poeta, che rende lo stupore lingua sua sì, ma più ancora lingua delle cose, lingua dell’essere. La poesia vede e raccoglie, conserva, ricorda, si contrappone all’ideologia cieca e in questa lotta incessante sembra soccombere, ma in realtà rimane.
Del resto di stupore sono pieni gli inizi della storia letteraria italiana, a cominciare dalla lauda e da san Francesco, dagli Stilnovisti e da Dante. Ma è soprattutto Petrarca ad aver reso l’espressione musicale e chiara, ricca di naturalezza e di essenzialità. La gratitudine per le cose percorre l’intera produzione italiana, riaffiorando sempre su momenti di offuscamento in cui la retorica sembra prevalere. Da questo punto di vista è significativo che l’interesse di Damiani si sia rivolto anche all’Ars Poetica di Orazio, il poeta latino che ha cantato la bellezza della semplicità e ha definito i canoni dell’estetica occidentale.