Pico della Mirandola (1463-1494), tra i maggiori esponenti dell’Umanesimo del Quattrocento,  gode di questi tempi di una meritata riscoperta. Non solo è protagonista di un incontro a Mantova nell’ambito del Festivaletteratura in cui Giulio Busi e Cesare Segre ne ricordano l’opera dedicata alla cabala, ma soprattutto la traduzione cinese della sua epistola sulla dignità dell’uomo è stata presentata di recente all’Expo di Shanghai, come contributo dell’occidente allo sviluppo della cultura, che vede nel rispetto dei diritti umani la prova della maturità della società civile.

Generalmente  noto per la proverbiale memoria, nella sua vasta produzione emergono interessi disparati, che si raggrumano attorno al rapporto dell’uomo con Dio non tanto nella storia concreta quanto nella vastità del cosmo. In un passo famoso del De hominis dignitate,  la sua concezione dell’uomo viene espressa con chiarezza ed efficacia, evidenti nell’originario latino, meno nella traduzione. Il testo è quasi un manifesto dell’Umanesimo, un documento del complesso travaglio di un’epoca che rilegge in modo nuovo la tradizione classica e cristiana, emblematico di una personalità e di un’intera cultura di confine,  sull’orlo della modernità.

Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosé e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte.


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Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnerai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.
O suprema liberalità di Dio Padre! O suprema felicità dell’uomo, a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole.

Non può sfuggire il tentativo di conciliare la visione biblica dell’uomo fatto a immagine di Dio e la filosofia platonica. Il centro del brano è un inno alla dignità di colui che ha la sua ragion d’essere nel fatto che il mondo abbia chi lo comprenda, insieme all’insistenza sulla libertà come essenza della natura umana. Si sente l’eco del classico “ognuno è fabbro della sua fortuna”, con il suo volontarismo e la sua astrattezza, unito al più concreto avvertimento delle diverse possibilità offerte alla libertà umana, sempre in bilico tra l’aspirazione alle cose più grandi e il pericolo della caduta nella meschinità, quando non nella violenza.