L’autunno accende di colori le foglie degli alberi e gli ultimi fiori. Ma questo smagliante grido della vita che sta per spegnersi non risalterebbe senza il colore bruno della terra arata o di quello più grigio delle stoppie. La vita della natura offre all’osservazione umana molti spunti di pensiero. Non a caso Gesù parla così spesso del seme, del fico, delle messi, dell’aratro, della vigna; ma anche un occhio meno acuto e amante del suo rintraccia nelle zolle scure una bellezza solida e poco appariscente, reale e ricca di significati.
L’oscurità della terra è il luogo sempre misterioso di una fecondità che il fatto di essere usuale non rende meno carico di sorpresa: “sora nostra matre terra” diceva san Francesco sulle orme di Gesù. E quando si usa la consueta espressione delle viscere della terra, non ci si accorge forse più che essa rimanda al nascondiglio ben riparato della vita prenatale e al lavoro incessante che si compie nei campi, al riparo dal lavoro dell’uomo, anche se non senza di esso: “daedala tellus”, dicevano gli antichi, terra operosa. Tra i poeti del Novecento, Carlo Betocchi ne ha sentito in modo tutto suo la forza evocatrice: “E godo la terra / bruna, e l’indistruttibile / certezza delle sue cose / già nel mio cuore si serra”, così scrive in una lirica dei suoi vecchi anni.
Il profumo della terra varia con la pioggia che la irrora, con la rugiada che presto svanisce, con la leggera nebbia che al mattino sembra salire dal suo tepore. Il tono del suo colore muta con il sole e con le nubi, con il trascorrere delle ore del giorno. Un pittore intenso come Cézanne dipinge uno stesso soggetto della sua terra in molteplici varianti, a seconda del cambiare dei colori e delle forme con i diversi punti di vista. Un altro pittore, Bill Congdon, ha più volte raffigurato l’opulenza della Bassa lombarda, ultimo approdo della sua vita errante, non di rado inscrivendovi i bracci della Croce.
Se all’acqua è assegnata la duplice simbologia della vita e della morte, toccare terra è giungere alla meta dopo i pericoli del mare, e mettere i piedi sulla terra ferma è gustare il sollievo della stabilità dopo aver subito il rollio delle onde e i capricci del vento. “È dalla terra, dalla solidità che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce” scrive Mounier in una pagina dei suoi diari.
E parla della terra pur senza farne cenno il vecchio Simeone, quando prende tra le braccia il piccolo Gesù e pronuncia le parole che la Chiesa fa ripetere ogni sera a Compieta, quando il giorno se n’è andato e più pressante si fa il bisogno del riposo e il pensiero della morte: “Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. In questo breve canto c’è tutto: l’attesa compiuta, l’amore del Dio fatto bambino, gli occhi stanchi che vedono la luce aspettata per secoli da un popolo fedele, il sentimento che la morte ormai può venire, perché come commenta l’antifona della liturgia, “tutto è compiuto, Signore; ci hai dato la tua salvezza”. La terra promessa è Gesù, dimora di Dio tra gli uomini, via alla nuova terra nei cieli.
In questo tempo di novembre infine il pensiero corre più spesso a chi riposa sotto terra e attende la resurrezione. Il colore grigio delle tombe, quello scuro dei cipressi si ravviva nelle feste dei santi e dei morti con la luce dei lumini e le mille tonalità dei fiori. Ancora una volta la terra offre agli uomini i suoi doni più gentili e alla loro riflessione l’immagine bella dell’intreccio della vita, fatta di durezza, di dolore e di speranza. Non è un caso se tra le ricorrenze della tradizione cristiana che tendono a scomparire o a trasformarsi in riti sociali più che religiosi, l’onore reso a chi è sepolto nei cimiteri resiste ancora nella nostra patria.