La vita di Lorenzo Calogero si conclude nel 1961 con il suicidio. Il peso troppo grande della lotta, la forte delusione per il mancato ascolto della sua voce, rimasta sconosciuta e quasi priva di risonanza hanno contribuito al logoramento psichico e al crollo di un poeta fornito di profonda conoscenza letteraria e consapevole del valore della propria arte, ma dotato di un equilibrio interiore fragile.

Egli nasce nel 1910 in provincia di Reggio Calabria, da famiglia benestante, terzo di sei fratelli. Nel 1922 si trasferisce nel capoluogo, dove frequenta le scuole superiori, poi nel 1929 a Napoli, dove  intraprende gli studi universitari, iscrivendosi dapprima a Ingegneria, poi a Medicina. In questo periodo comincia a scrivere versi e cerca di contattare Bargellini e Betocchi, ai quali invia alcune poesie nella speranza che vengano pubblicate. Si rivelano anche i primi sintomi delle fobie che renderanno sempre precaria la sua salute. Laureatosi nel 1937, nel 1939 esercita la professione medica in diversi centri della Calabria. Ecco una lirica che risale a questi anni di attività poetica:

Molti fiori, molte cose odorose
furono concesse a me
da montagne non mie,
pur quando era passato il tempo per riceverle.
Ora mi siedo in una valle ombrosa
presso una fonte
dell’amorosa campagna
e guardo con quale passo
intrattenibile, oscurando i rami
degli alberi, passa il tempo.

Nel 1949 si conclude amaramente la sua prima storia d’amore. Continuo è l’invio di suoi manoscritti a uomini di cultura, con esito sempre negativo. Nel 1954 riceve l’incarico di medico condotto in provincia di Siena, dove si ferma solo per un anno, perchè una delibera del consiglio comunale lo dimette dall’incarico. Si ritira definitivamente nel suo paese, in completa solitudine, anche per la grettezza della gente che lo tratta con aperta diffidenza.

Gli ultimi anni della vita sono segnati da diversi ricoveri in cliniche psichiatriche, da un nuovo infelice amore, da un irrefrenabile lavoro di scrittura. Pubblica a sue spese alcune raccolte di versi e gode dell’amicizia di Sinisgalli, con cui intesse un fitto rapporto epistolare; nel 1957 vince un premio letterario. Ma la sua salute declina; non si nutre, si sostiene con sonniferi, sigarette e caffé, si consacra solamente alla poesia, corteggiando la morte. Il suo corpo senza vita viene trovato il 25 marzo 1961. Accanto un biglietto: “Vi prego di non essere sotterrato vivo”.

Solo allora la critica sembra scoprirlo; si parla di lui come del “nuovo Rimbaud italiano”. Dopo il clamore durato quasi ininterrotto fino al 1966, il silenzio scende nuovamente su Calogero e la maggior parte della sua produzione rimane ancora oggi inedita.
Molte liriche non sembrano lasciar presagire la tragica fine del poeta, aperte come sono alla  speranza, spersa in paesaggi evanescenti. Egli vi appare come un mendicante d’amore, assorto in un silenzio che è fame di vita, richiesta di una rivelazione:

Angelo della mattina
risvegliami ancora
per la nuova fulgente aurora
che s’arrossa sull’orizzonte o s’incrina.
Io sono uno strano mendicante
che chiede amore e parole,
sono un solitario emigrante
verso le terre della luce e del sole.
Vienimi coi tuoi fulgori,
angelo che non ristai,
coi tuoi infiniti fulgori
colle movenze che tu sai,
e crescimi delle meraviglie,
di quanto raccogli negli occhi neri,
degli infiniti misteri
che tu celi dentro l’arco dei cigli.

Più brevemente ancora ritorna il tema dello svelarsi delle cose:

Di tanto rovinoso mare
poco suono giunge
al mio orecchio assorto
in ascoltazione dell’Eterno
che come un angelo passa.

Un’ultima lirica sembra contenere tutto il tentativo del poeta, destinato al fallimento, ma non per questo dominato dal rancore. Il riposo nel vento è ancora, anche se paradossale, desiderio di vivere:

Mandai lettere d’amore
ai cieli, ai venti, ai mari,
a tutte le dilagate
forme dell’universo.
Essi mi risposero
in una rugiadosa
lentezza d’amore
per cui riposai
su le arse cime frastagliate loro
come su una selva di vento.