Con tutto il rispetto dovuto al racconto di una testimone, il libro di Rosetta Loy La parola ebreo, pubblicato da Einaudi nel 1997,appare piuttosto ingeneroso nei confronti di Pio XII e più in generale del cattolicesimo dell’epoca. Il racconto ripercorre l’agiata infanzia dell’autrice a Roma: una vita dorata tra casa, collegio delle suore, vacanze e governanti che si trova in mezzo, senza quasi rendersene conto, a eventi drammatici. La narrazione inizia con le prime leggi razziali emanate da Mussolini nel 1938 e si conclude con le ultime deportazioni di ebrei di Roma nel 1944. Di essa Furio Colombo ha detto: “Con apparente semplicità Rosetta Loy ha scritto un piccolo libro che non era mai stato scritto” e Cesare Segre la definisce “un ammirevole esame di coscienza”.



Il tono è quello consueto di tanti resoconti della grande tragedia operata dalla Germania di Hitler e dall’Italia di Mussolini nei confronti dei non ariani: una prosa limpida, in cui l’indignazione trattenuta è lasciata ai fatti. Non c’è risentimento, non vittimismo, non rivendicazioni: solo la grande e incredibile sorpresa di come sia potuto accadere tutto questo nel silenzio generale, nell’efficacia di ordini impartiti uno dopo l’altro, in una sorta di inarrestabile assalto alla dignità dell’uomo. In più qui c’è la blanda opposizione del padre a Mussolini, il dramma conosciuto solo attraverso le vicende delle persone ebree con cui i Loy sono in amicizia o in contatto, una fanciullezza tutto sommato poco toccata dalle restrizioni della guerra. Rosetta è troppo piccola e troppo protetta per poter sapere ciò che sta avvenendo; registra solo quanto personalmente la tocca da vicino.



Così, accanto ai documenti della storia ufficiale, ella restituisce il quadro di un’educazione borghese tra gli anni Trenta e Quaranta, tanto più interessante quanto più essa appare in filigrana anche nei due decenni successivi del secolo, con mutamenti e correzioni certo, ma in sostanza senza particolari svolte. Da questo punto di vista appare interessante il quadro offerto dal collegio di suore in cui Rosetta va a scuola e in cui apprende gli elementi della religione cristiana.

A Roma, al centro della cristianità, dominata dalle due figure imponenti di Pio XI e di Pio XII, la fede che la bambina incontra si riduce nel suo ricordo a una serie di richieste di carattere morale, a riti che, come quello degli annuali Esercizi spirituali, risultano prescrittivi, lontani dalla vita. Come se la fede non avesse corpo. La scrittrice descrive questa caricatura del cattolicesimo in tono realista, con una venatura di superiorità, come se fosse poi riuscita ad affrancarsene. Una memoria critica anche qui molto blanda, propria di chi mette da parte l’argomento, perché qualcosa d’altro gli interessa di più. Ed è qui il vero punto dolente di questa ricostruzione, volta a stigmatizzare in punta di penna il silenzio del Vaticano di fronte all’orrore nazista.



 

I fatti sono innegabili, non si possono nascondere. Si possono invece presentare in una luce livida, di paura e di calcolo politico insieme. Se fosse solo così come questo libro lo descrive, l’agire di Pio XII sarebbe riprovevole e non basterebbe a riabilitarlo né l’indagine sui motivi che lo spinsero alla prudenza diplomatica da una parte, né l’audacia delle decisioni prese in soccorso degli ebrei di Roma dall’altra. Le parole con cui la scrittrice presenta il Pontefice sono secche come quelle usate per i responsabili della tragedia. Niente commenti, ma frasi lapidarie, da lasciare senza fiato.

 

Fu veramente così? L’opera di Rosetta Loy non è un saggio storico. È una memoria personale filtrata attraverso la memoria collettiva costruita dopo la Liberazione. Entro questi limiti il suo racconto è credibile e degno di rispetto. Ma troppe le omissioni, una per tutte la figura e la voce possente di Clemens August von Galen, il leone di Münster. Troppo scoperto, pur nell’apparente innocenza, il filtro di un racconto a tesi, volto a suffragare la tesi che un cristianesimo esangue anche e soprattutto ai suoi vertici non poteva e non volle prendere posizione di fronte a una delle più gravi tragedie della storia.