La voce del poeta livornese Giorgio Caproni, morto nel 1990 a Roma, resta dopo vent’anni dalla sua scomparsa tra le più vive del Novecento italiano. Di famiglia modesta, il mondo dei suoi affetti trova la sua pienezza nei legami con la madre Anna Picchi e in seguito con la moglie Lina.
Ecco come la figura femminile si insinua in un paesaggio marino appena accennato:
Il mare brucia le maschere,
le incendia il fuoco del sale.
Uomini pieni di maschere
avvampano sul litorale.
Tu sola potrai resistere
nel rogo del Carnevale.
Tu sola che senza maschere
nascondi l’arte d’esistere.
Anche un interno dal sentore dimesso vede la presenza femminile come portatrice di serenità e di calore:
Ricorderò San Giorgio
un giorno senza virtù,
e le tue mani aderenti
al freddo, qui dove fu
quasi una grazia nel buio
la cena nella latteria.
Ritroverò nella mia
chiusa tristezza, il di più
che mi hai lasciato: la pia
immagine di concordia
– la medaglietta con su
“Mi Iesu misericordia”.
Quasi una grazia nel buio, uno dei versi più belli di Caproni e più umani, in cui i primi due accenti tonici aperti nella vocale a si spengono nella chiusa, in cui soprattutto ognuno può ritrovare, detto da un maestro della parola, qualcosa di proprio, conservato nel segreto di una memoria che tace, perché non riesce a esprimerne la preziosità.
Fondamentale per Caproni l’amore per i poeti delle origini e per Dante, poi con il trasferimento a Genova, la città prediletta dei suoi studi e dei primi tentativi poetici, l’incontro con i testi dei grandi del primo Novecento, Montale, Ungaretti, Sbarbaro; a Roma, dove fisserà in seguito la sua residenza avvierà un legame di collaborazione e di stima con altri esponenti della cultura, in primo luogo con Pasolini. L’umanità di Caproni si rivela in una poesia che egli vorrebbe leggera come un piuma, o come una vela, cauta, arguta, magra come la vita di sua madre, fine e popolare come lei che faceva la ricamatrice, abile come la spuma/ trasparente del mare. Per la sua poesia vuole rime chiare, Rime che non siano labili,/ anche se orecchiabili./ Rime non crepuscolari,/ ma verdi, elementari.
E sono in fondo rimaste così, in una produzione che va dai primi anni Trenta fino al 1990, anche quando hanno cantato le città, i dolori, il viaggio attraverso gli incontri e le vie dell’esistenza, il non senso della morte, l’ansia e la ricerca, la religiosità senza fede: Povere mie parole./ Stracci, o frecce di sole?…
Con questa stessa limpidezza Caproni parla con Dio, soprattutto negli ultimi anni in cui la sua ricerca approda a spazi inesplorati, a silenzi talvolta oscuri. La sua è una teologia negativa: Dio fugge dalla storia e la coscienza umana lotta contro l’insopprimibile bisogno di una ragione per tante iniquità patite. Ma non sa trovare le sue orme: Mio Dio./ Perché non esisti?
O, tra le ultime, quasi facendo il verso a se stesso: Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti?
Poche parole, quasi prive di sintassi, ma di quale portata; parole brevi, semplici, ma frutto di chissà quale lavoro, e non solo linguistico. Parole pudiche, come quelle del carteggio con Carlo Betocchi, documento dell’amicizia tra i due poeti durata mezzo secolo. Sul limitare della vita di entrambi, le parole dell’affetto si scarnificano fino a farsi dolorose urgenze. “Sono uno straccio – gli scrive Betocchi nel 1984 – coi nervi a pezzi e finirò fuori della finestra! Sono in bilico tra il suicidio e lo sdegno angoscioso della mia condizione. Ti abbraccio col pianto alla gola: da disperato”. Caproni gli risponde, con parole di consolazione, inaspettatamente comuni: “Mi hai scritto una lettera tragica, che mi fa paura. Che posso dirti? Sono vecchio anch’io, ho anch’io tanti malanni addosso e intorno: sei stato grande nel dolore, nella gioia, nella vita. Sempre. E ora vuoi ‘buttarti giù dalla finestra’? Son pensieri degni di Carlo Betocchi, questi? Anch’io sono vecchio, ti ripeto. Anch’io mi trovo sull’orlo”. Un esempio di come la grande poesia non possa essere disgiunta da una grande umanità e di come entrambe, poesia e umanità, si nutrano dell’amicizia.