Edith Wharton, scrittrice americana vissuta tra Ottocento e Novecento, amica di un circolo di artisti tra i più raffinati dell’epoca, colta viaggiatrice in tutta Europa, ambienta un capolavoro come il romanzo breve che dal nome del protagonista si intitola Ethan Frome, nelle lande boscose e innevate del New England.

Non si tratta del solito triangolo amoroso, quanto del fiorire di una intesa pacificante dal fondo di due solitudini provate dal dolore della vita. L’amore è raccontato con una delicatezza inconsueta, così come il riverbero che la natura ha nell’animo di Ethan. Egli è un uomo sfortunato; dopo aver curato padre e madre impazziti, lavora in una fattoria che gli rende possibile vivere in modo modesto, sposa una donna che si rivela presto affetta da ipocondria. Accoglie allora in famiglia la cugina di sua moglie, Mattie, che è sola al mondo e si è offerta di aiutarlo. Con lei nasce un’intesa silenziosa e poi a poco a poco espressa più con sguardi e mozziconi di parole che con altri gesti dichiarati. Ma la salute della moglie si aggrava, Mattie deve partire per lasciare posto a un’infermiera.

Ethan si ritrova impotente a trattenere con sé la donna; ecco la sua ultima notte prima della partenza: “Mentre era lì coricato, il vetro della finestra di fronte a lui, rischiarandosi gradualmente, intarsiò nell’oscurità un quadrato di cielo soffuso di chiarore lunare. L’attraversava un ramo ritorto, un ramo del melo sotto al quale talvolta, nelle sere d’estate, venendo su dalla segheria, aveva trovato Mattie seduta. Lentamente il bordo dei vapori piovosi prese fuoco e bruciò, e nel blu si librò una luna pura”.

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“Ethan, sollevandosi sul gomito, osservò il paesaggio che, sotto l’azione scultorea della luna, imbiancava e prendeva forma. Era la notte in cui doveva portare Mattie a scendere con lo slittino, ed eccola sospesa lassù la lampada che li avrebbe illuminati! Guardò fuori verso i pendii immersi nella lucentezza, l’oscurità del bosco orlata d’argento, la porpora spettrale delle colline sullo sfondo del cielo, e sembrò quasi che la bellezza della notte si fosse tutta dispiegata per schernire la sua infelicità”.

 

Nell’introduzione al romanzo la scrittrice sostiene che il soggetto contiene la propria forma e le proprie dimensioni e che il suo racconto richiede una scrittura scabra e sommaria come la vita dei suoi personaggi. Sceglie di raccontare in modo impersonale, metodo già in parziale declino negli anni della sua produzione, anche perché la reticenza degli altri personaggi non le permette altre modalità di sviluppo del soggetto.

 

Infine osserva come sia importante che l’autore dica ai lettori il motivo per cui intraprende l’opera e sceglie una forma per darle corpo. L’intento primario deve essere sentito e perseguito quasi istintivamente da chi scrive, “prima che nella sua creazione possa intervenire quel qualcosa in più di imponderabile, che vi fa circolare la vita e la preserva per un po’ dal declino”.