La figura di Cristina Campo non è nota al grande pubblico, anche per il silenzio in cui l’ha lasciata la critica ufficiale. La scrittrice stessa amava l’ombra e la sua esistenza fu appartata, tra gli studi e alcune amicizie significative, tra le quali figurano Luzi e la Zambrano, e soprattutto la lunga relazione che la legò a Elemire Zolla. Nata a Bologna nel 1923, ma vissuta lungamente a Firenze e poi dal 1955 a Roma, morta nel 1977, Vittoria Guerrini amava nascondere le sue produzioni sotto vari pseudonimi.

La sua prima attività di traduttrice contribuì a dotarla di una sensibilità spiccata per la parola, ma anche per quell’incontro tra il pensiero dell’autore e quello del lettore in cui solo si avvera il compito dell’opera d’arte. Lo mette in luce il libro di Massimo Marasso, In bianca maglia di ortiche, pubblicato recentemente da Marietti, che raccoglie conferenze tenute dell’autore sui vari aspetti della personalità della Campo: scrittrice, poetessa, critica letteraria, amica di personalità con cui ha conversato nella corrispondenza epistolare.

Scriveva all’amica Margherita Pieracci in una lettera del 1956 due righe particolarmente illuminanti sulla lettura critica: “Prenda contatto con se stessa, stenda un elenco di appunti (citazioni) e il discorso che li deve legare crescerà in mezzo da solo, come un rampicante tra i sassi”.

Nulla di più lontano dall’impressionismo critico, ma capacità a lungo affinata di dialogo con l’autore. “In Italia l’ultimo critico fu, mi sembra, Leopardi, con De Sanctis la pura disposizione dello spirito contemplante fu definitivamente perturbata e distorta dall’ossessione storica. Leopardi fu l’ultimo ad esaminare una pagina come si deve, al modo cioè di un paleografo, su cinque o sei piani insieme: dal sentimento dei destini all’opportunità di evitare il concorso delle vocali.

 

Tutto ciò che non si presti ad una lettura multipla, egli lo ignora. Evito di pensare al suo esame di una pagina contemporanea. Fosse questa pagina tra le più belle, suppongo che egli noterebbe innanzi tutto l’assenza quasi totale del come e dell’ablativo assoluto: la carenza di spirito analogico, se non vogliamo dire metaforico della facoltà compiutamente poetica – profetica – di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino”.

 

La lunga citazione è tratta da Gli imperdonabili, il libro finora più noto e cospicuo dell’attività critica di Cristina Campo. In una sua sezione, Con lievi mani, Cristina Campo si diffonde ad analizzare il significato del termine sprezzatura, che ognuno in Italia lega all’opera Il cortegiano di Baldassar Castiglione. E’ un esercizio di grande competenza lessicale, in cui vengono passate in rassegna e via via scartate tutte le parole potenzialmente connesse, ma più povere nell’identificare quel concetto.

 

E’ qui che Cristina Campo, figlia di un musicologo, dà prova di una sensibilità che doveva aver imparato in famiglia: scrive infatti della sprezzatura di Chopin, della purità e dell’alterezza delle sue Polacche, in cui l’ineffabile e il tremendo si scelgono come messaggera la danza popolare, la forma meno canonizzata fra tutte. E termina con la sprezzatura nelle regole trappiste che stabiliscono i comportamenti nelle ricreazioni monastiche, bandendone ogni rozzezza.

 

La scrittura di Cristina Campo è colta ma non pedante, la sua cifra è la leggerezza. Sembra che sfiori la variegata trama delle sue predilezioni quando invece esse sono frutto di un gusto che a lungo si è esercitato. In questo ella è allieva dell’amata Simone Weil. Leggerla è un modo piacevole per imparare l’amore e l’attenzione impliciti nello studio di qualsiasi cosa.