Permane anche se sotto le spoglie della nostalgia nella nostra vita di cittadini stretti tra le case l’amore alla terra. Le abbondanti piogge di maggio ci hanno regalato un verde pieno e ciò rende più concreta l’etimologia della parola felice, la cui origine è agricola: felice è infatti per gli antichi il campo che ha dato buoni frutti; essere felice coincide con la fecondità.

Gran parte del lessico latino trae la sua forza proprio dalla terra: un esempio significativo è dato dalla parola stirps, che significa radice della pianta. In italiano è diventata stirpe, nell’accezione traslata di discendenza, ma il verbo estirpare mantiene più chiaramente l’originaria relazione con la terra. Un altro esempio viene dalla parola delirare, che significa uscire dal solco, ovvero dalla norma. Il delirio è dunque un comportamento che va oltre un tracciato e perde la giusta direzione.

La terra dunque si confonde nelle nostre parole oltre a deliziarci gli occhi con le sue bellezze, donarci la bontà dei frutti, allietarci con i suoi profumi e i suoi rumori. La terra vive in silenzio e anche questo spesso noi rimpiangiamo nelle nostre giornate trafelate. La calma è infatti una componente del silenzio e dell’armonia.

Un poeta su tutti ha cantato la propria terra con un raro senso di appartenenza, Virgilio. Figlio di proprietari terrieri nel mantovano, visse il dramma della confisca delle terre per premiare i veterani di Cesare, poi grazie all’amicizia di Augusto i suoi fondi vennero reintegrati.

Il poeta si era già allontanato da Mantova, aveva studiato a Napoli, viveva a Roma, ma il suo cuore era nei campi dei suoi avi e la sua poesia ne cantava la nascosta armonia nelle Bucoliche. Più tardi, anche per sostenere la riforma agraria voluta da Augusto, cantò nelle Georgiche il lavoro dei contadini con una partecipazione affettiva che fa di questa opera il suo capolavoro.

Virgilio è uno degli ultimi sapienti antichi, una sorta di padre spirituale che precede la figura del puro intellettuale moderno; forse proprio in virtù del suo radicamento alla terra ha saputo arricchire il mondo culturale dell’occidente, celebrando il lavoro agricolo e la fatica ad esso connessa quando ancora tutto attorno a lui lo considerava una attività da schiavi.

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Per lui la resistenza che la terra oppone all’operosità umana è l’occasione per l’esercizio dell’intelligenza, mediante la quale avviene il dominio sulla brutalità degli elementi: “Tutto vince il faticoso lavoro e il bisogno che incalza nell’avversità”. E l’osservazione della natura perché essa renda il suo frutto diventa ammirazione della sua bellezza: “Dovrai anche osservare quando il mandorlo nelle selve / si vestirà di moltissimi fiori curvando i rami odorosi; / se i fiori sovrabbondano, in ugual misura seguiranno i frumenti”.

 

Fortunati dunque coloro che svolgendo il proprio compito lontano dalle ruberie e dalle lotte delle ricche città “hanno una sicura pace, una vita ignara d’inganni, / ricca di vari beni… sacri i riti degli dei, santi i padri”. È questa la vita a cui Virgilio torna con il rimpianto della sua poesia, a cui aspira almeno una parte di noi: proprio perché i piedi sono saldamente per terra, gli occhi si levano verso il cielo, a chiedere ciò che le mani non possono produrre. È la religiosità degli antichi, la povertà che spesso noi abbiamo smarrito.