Sono a Varikino e Lara, nell’imminenza di una separazione che sarà definitiva, prega Zivago di scrivere i versi che tante volte le ha recitato a memoria, affinché non vadano perduti.

“Era l’una di notte, quando Lara, che fino a quel momento aveva finto di dormire, si assopì realmente. La biancheria fresca, ricamata, splendeva pulita, stirata, su lei, su Katen’ka e nel letto. Anche in quegli anni lei trovava il modo di inamidarla.

Un silenzio beato, colmo di felicità, che alitava dolcemente di vita, circondava Jurij Andreevic. La luce della lampada cadeva con un giallo pacato sul biancore dei fogli e con un riflesso dorato galleggiava sulla superficie dell’inchiostro, all’interno del calamaio. Fuori dalla finestra stava l’azzurra notte invernale, di gelo. Jurij Andreevic passò nella stanza accanto, fredda e non illuminata, da cui si vedeva meglio l’esterno, e guardò dalla finestra. La luce della luna piena fasciava la radura nevosa con una vischiosità tattile d’albume o di biacca. La sontuosità della notte di gelo era indescrivibile. La pace era scesa nel suo animo. Tornò nella stanza illuminata e calda, e si mise a scrivere”.

 

Boris Pasternak, nato a Mosca nel 1890, scrive Il dottor Zivago nell’isolamento della sua dacia, dove muore nel 1960; solo due anni prima aveva ricevuto il premio Nobel, che consacrava la sua fama all’estero ma non scioglieva il gelo della politica e della cultura sovietica nei suoi confronti.

Nella storia d’amore dei due protagonisti, uno dei temi che si intrecciano nella sinfonia del romanzo, è adombrato il rapporto tra lo scrittore e la tradizione della vecchia Russia. Nel brano che narra la notte silenziosa e gelida in cui Zivago scrive e che è stata conservata intatta nella versione cinematografica, il dono della poesia scende dolcemente su di lui, che veglia attorniato dal bianco della neve ghiacciata, delle lenzuola pulite, dei fogli di carta rapidamente vergati dalla sua mano.

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Lo interrompe l’ululato dei lupi dalla radura, poco distante. E non è difficile pensare a quale sorda violenza esso alluda, capace di spazzare via il temporaneo rifugio e la poesia che lo abita. In calce al romanzo l’autore riporta alcune liriche di Zivago sottratte all’oblio. Una, intitolata Il vento, sembra scritta quella notte.

 

Io sono già morto e tu vivi ancora.

E il vento, con gemiti e pianto,

Fa oscillare il bosco e la dacia.

E non per proprio conto ogni pino,

Ma tutti insieme gli alberi

Nella loro distesa sconfinata,

Come armature di velieri

Sulla superficie d’una baia.

E non per tracotanza

O per vano furore,

Ma per trovare nell’angoscia le parole

D’un canto di culla per te.

 

È stata a volte sorpresa, non a torto, l’ambiguità di Pasternak e del suo romanzo, la complessità del suo rapporto con la tradizione e con ciò che l’ha sradicata. Forse anch’egli risente del clima del secolo scorso, teso a un rinnovamento che non sempre ha significato la riscoperta della novità presente nella storia di un popolo. Ma non sempre è necessario chiedere all’opera d’arte di svelare in modo compiuto una visione del mondo. Talvolta le cose più riuscite sono quelle che lasciano aperte le domande da cui nascono.