Ospite in questi giorni del Festivaletteratura di Mantova che gli dedica una lunga retrospettiva, Amos Oz dichiara di avere due penne sulla sua scrivania, una per scrivere le storie, l’altra per dire no al governo di Israele, il paese che ama anche quando fa di tutto per rendersi insopportabile. Un paese che non lascerebbe mai, nonostante tutte le difficoltà e gli errori creati da chi lo guida. In questa dichiarazione d’amore sta la sua diversità dall’intento manifestato recentemente da David Grossman.
Una pagina del suo romanzo Una pace perfetta rappresenta tale complessità di sentimenti: Yolek è il vecchio segretario del kibbutz Granot. Alle sue spalle una vita di ideali e di compromessi. E’ un uomo solo, anche se dirige la vita comune dei suoi compagni e si accorge delle difficoltà della vita del kibbutz in condizioni diverse da quelle del tempo in cui esso era stato fortemente voluto. Ama scrivere, ma poi distrugge i fogli su cui annota i suoi pensieri. Anche in una notte insonne, si siede al suo tavolino, cerca di fermare i ricordi sulla carta, poi straccia gli scritti ed esce di casa.
Da quelle parti dimorava il silenzio che può esserci solo in campagna nelle sere d’inverno. Non pioveva più e anche il vento si era calmato. Fra gli squarci delle nuvole spuntarono tre e quattro stelle, parvero dei minuscoli fori, buchi di tarme su una tenda di velluto. Ed era come se dietro quel sipario scuro splendesse una luce dalla terribile potenza, un ardore abbagliante: quelle poche stelle dovevano essere soltanto una vaga reminiscenza della tempesta di luce che stava scoppiando lassù, rare gocce di luce colate dal nero firmamento. Yolek trovò conforto.
L’aria era viva e intensa. Inspirò gli odori, odori di campagna intrisi di una sensualità profonda, come la carezza di una mano. Quand’era stata l’ultima volta che qualcuno gli aveva fatto una carezza? Anni e anni fa, non succedeva più da un pezzo. La natura pietosa e generosa aveva perfino a un perfido intellettualoide come lui fatto la grazia dell’amore materno. Strano però, persino un poco triste, pensò Yolek ricordando sua madre. Da allora, niente più carezze.
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Dal pollaio risaliva un vapore denso e acidulo. Le pecore mandavano odore di sterco caldo. La presenza calma delle bestie addormentate, una notte d’inverno. Il fiato delle vacche. Quanto alla smania di carezze, è davvero ridicolo per una persona della mia età, e nelle mie condizioni. Tuttavia, se non fosse stato per quella tragedia, oggi sarei nonno.
Ogni giorno alle tre e mezzo andrei al nido, riuscendo ad arrivare prima dei genitori, e mi ruberei un po’ il bambino. Me lo metterei sulle spalle. Sulla sedia a dondolo. Lo porterei nei campi. Al frutteto. Sui prati. All’ovile e al pollaio e alla stalla. Alla gabbia del pavone davanti alla piscina.
Lo riempirei di caramelle e senza un briciolo di pudore gli bacerei pubblicamente i piedini, un dito dopo l’altro. E d’estate mi rotolerei con lui come un giovincello su tutti i prati. Lo schizzerei con il tubo dell’acqua e riceverei pan per focaccia. Gli farei le smorfie come un pagliaccio, cosa che non ho mai fatto per i miei due figli. E farei muu bee e bau bau, tutto in cambio di una sua carezzina. Nonno. E m’inventerei tante di quelle storie, su animali, demoni e spiriti, sugli alberi e i sassi. E la notte, mentre tutti dormono, io m’infilerei di nascosto nel nido, solo per schioccargli un bacio sulla fronte. Espiando così, giorno per giorno, le mie azioni malvagie.
Ma la sorte ha voluto che la sua nipotina nascesse morta. Yolek non è un sentimentale, è un uomo che ha combattuto e che guida con mano ferma ciò che ha costruito. Ma in una notte in cui la pioggia incessante ha dato spazio alle stelle, percepisce gli odori che tanta parte hanno nel riaccendere i ricordi e i desideri. Lo invade allora la nostalgia della carezza di sua madre, sogna quella di un bimbo. Così le generazioni si riannodano, in una notte di pace, quasi a invocarne il beneficio.