Italo Calvino a 25 anni dalla morte resta ancora tra i narratori italiani un maestro, anche se il suo mito si è lievemente appannato. Sono tre i libri suoi che abbiamo più amato: il primo, scritto nel 1947 e rielaborato nel 1964 è Il sentiero dei nidi di ragno, racconto della resistenza ligure vista con gli occhi di un bambino, Pin, che vi si trova coinvolto e che nella sua solitudine è alla disperata ricerca di un amico e lo trova tra i partigiani. Così l’ultima pagina:
Il Cugino si rimette il mitra in ispalla e restituisce la pistola a Pin. Ora camminano per la campagna e Pin tiene la sua mano in quella soffice e calma del Cugino, in quella gran mano di pane. Il buio è punteggiato di piccoli chiarori: ci sono grandi voli di lucciole intorno alle siepi.
L’altro romanzo, La giornata di uno scrutatore, è scritto nel 1963 e prende spunto da fatti di dieci anni prima, quando attraverso la cosiddetta legge-truffa, la Dc ottenne una schiacciante vittoria elettorale. Il protagonista è un militante del Pci, assegnato come scrutatore alla “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino.
In una mattina piovosa egli nota lo squallore dell’ambiente, a metà tra una caserma e un ospedale. Nella sala adibita a seggio elettorale sfila la processione dei votanti: malati, vecchi, monache, minorati, infermi, con pari diritto di ogni altro cittadino; lo scrutatore si sente un ostaggio della Chiesa, che difende i diritti umani in forza di un concetto di persona estraneo ai principi illuministici a cui egli si ispira. Per tutto il giorno i più vari pensieri si affollano nella sua mente; di fronte a tante creature brutte, opache, prive di ogni attrattiva, lo prende un desiderio struggente di bellezza; quell’esperienza lo interroga su questioni che non sono più soltanto elettorali o politiche, quanto sul senso stesso dell’identità personale e civile, sua e dei ricoverati.
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Guarda le fotografie sulle carte d’identità delle suore e degli ospiti del “Cottolengo” e si accorge che i volti sono accomunati dalla stessa espressione di pace: si chiede allora se possa esistere felicità e a quale prezzo. A quale Dio essere grati per quella carità che cura gli incurabili, quello della Chiesa, oppure quello di Voltaire, di Leopardi, di Kafka?
Poi vede due scene: una suora che si aggira nella corsia degli incurabili e un vecchio contadino che imbocca il figlio deficiente con le mandorle sgusciate.
La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio. Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio.
La penna lucida di Calvino registra l’amore e questo basta per rapire all’ideologia il suo breve e denso racconto.
Il terzo libro raccoglie le famose Lezioni americane, un ciclo di sei conferenze che lo scrittore avrebbe dovuto tenere nel 1985 all’università di Harvard. La morte lo colse sul finire dell’estate che aveva dedicato alla stesura del testo. La prima, quella forse più nota, è dedicata al rapporto leggerezza-peso e si presenta come un coltissimo viaggio tra Montale, Lucrezio, Ovidio, Kundera, Cavalcanti, Dante e tanti altri, per concludersi con Leopardi e Kafka. Impossibile ripercorrerne le numerose suggestioni. Sono certamente pagine, poche, da rileggere.