La lettura di Acciaio, l’opera prima di Silvia Avallone, seconda classificata per un soffio al Premio Strega, è sconcertante. Il romanzo sembra la sceneggiatura di un film a sfondo erotico e sociale, ambientato a Piombino tra il mare, i casermoni di un quartiere operaio e l’industria metallurgica che dà lavoro a tutti.
Il linguaggio, ben lontano dall’impegnativo sforzo della mimesi, si dibatte tra la volgarità del parlato e qualche velleità poetica. Incomprensibile il successo di una vicenda di fatti prevedibili, seppure dolorosi, quali le violenze famigliari, la droga, il gioco del sesso e il dramma della morte sul lavoro. Non c’è una pagina in cui il tono si sollevi da questa miseria troppo costruita per essere vera, non il rapporto con la natura, non il lampo dell’amicizia, non la pietà per chi si perde. Le parole dei personaggi restano grevi e brutali nei dialoghi come nei pensieri.
Eppure questo romanzo piace. E vende. Come mai? A parte la forza dell’editore, Rizzoli, e le polemiche che il libro ha suscitato al suo apparire, elementi che incrementano le vendite, c’è forse dietro il successo di questo brutto romanzo anche un fattore di carattere “culturale”, che non depone affatto a favore dell’educazione al gusto della lettura nel nostro paese.
Troppo debole per esser una denuncia, troppo scontata nell’intreccio per avvincere, troppo ripetitiva nel linguaggio scurrile, la presa di questa opera può venire forse dal fatto che documenta un quotidiano scialbo e violento, nel quale possono essere ritrovati brani della convivenza famigliare e giovanile in questi nostri anni vuoti. Ma la fotografia della Avallone risulta sgranata e priva dell’efficacia necessaria a essere realista e resta al di qua dell’intento che si propone. A meno che non si prendano come riferimento le esibizioni verbali della Littizzetto, oggi nella provincia italiana, nei quartieri operai, nelle fabbriche, persino nella televisione non c’è solo lo squallore qui rappresentato.
Lo dimostra un’altra opera prima, quella di Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte rossa come il sangue. Scritto nel linguaggio scanzonato e accattivante dei sedicenni, in realtà è opera colta, costruita attorno a una trama semplice e dolorosa: la storia dell’amore tra Leo e Beatrice, spezzato dalla leucemia. Il suo pregio è la leggerezza, anche quando si spinge su temi inconsueti alla letteratura giovanile, di solito dedita a ribellioni, noia e sesso.
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Qui le domande poste dai fatti sono più corpose e fisiche: il dolore, Dio, la morte, il senso dell’esistenza. Il tutto potrebbe sfumare in un racconto vagamente esoterico e invece quasi sempre la scrittura tersa nei concetti e nella stesura tiene il confronto con la realtà, anche grazie all’apporto di figure adulte presenti e positive. La rete di citazioni letterarie e non offre ai protagonisti una possibilità di comuni riferimenti, in cui si muove la personale ricerca di ognuno.
Il nome di Beatrice è già di per sé eloquente, ma anche quello di Silvia, amica e compagna di studio di Leo, nasconde le movenze femminili, la dedizione, l’inganno del sogno giovanile di Leopardi. E poi c’è Saffo, c’è Platone. C’è Eraclito, Ariosto, ci sono le costellazioni, c’è Giobbe e Winckelmann. Infine il gioco dei colori e dei loro significati: il bianco che riempie di angoscia Leo, il rosso dei capelli di Beatrice, del suo sangue ammalato e del sangue di Gesù, c’è l’azzurro della pace in cui vive Silvia.
I due romanzi non sono paragonabili, se non per il fatto che i protagonisti hanno più o meno la stessa età. Diverso l’ambiente, molto differente l’intento narrativo. L’augurio per gli autori, giovani anch’essi, è che la vita che hanno davanti e l’impegno con la scrittura, se vorranno continuarlo, offrano loro l’occasione di approfondire quanto già hanno saputo rappresentare nel loro fortunato esordio letterario.