Tra gli innumerevoli argomenti di cui Cicerone ha scritto nelle sue opere, uno riguarda la natura degli dei, naturalmente in polemica con gli epicurei, così invisi alla tradizione romana di pensare e di agire di cui egli è convinto assertore. La scuola epicurea nega che gli dei, dalla tranquillità della loro sede, si occupino delle vicende degli uomini. Anzi, essi non hanno affatto costruito il mondo, puro frutto del casuale agglomerarsi degli atomi. A tale dottrina pericolosa per gli assetti culturali e politici di Roma Cicerone risponde con un’opera in tre libri, il De natura deorum.
Nella parte centrale del secondo libro l’autore parla della conformazione fisica dell’uomo, elencando la saggezza con cui sono distribuiti gli organi che presiedono ai sensi; in particolare c’è un passo sorprendente che, insieme a tutta l’argomentazione che lo correda, potrebbe essere fatto proprio dagli assertori del principio antropico, la teoria secondo la quale l’universo nella sua totalità sarebbe costruito in funzione della vita dell’uomo sulla terra. “Dio ha sollevato l’uomo da terra e lo ha collocato in posizione eretta, dritto, in modo che, contemplando il cielo, potesse avere nozione degli dei. Gli uomini non sono abitanti della terra ma in un certo senso spettatori dalla terra delle realtà superiori e celesti, la cui contemplazione non attiene a nessun’altra specie di esseri viventi”.
L’affermazione dimostra quanto gli antichi, anche i più pragmatici come i Romani, sapessero varcare le soglie della pura osservazione delle cose per risalire al loro scopo: in questo caso dalla posizione eretta dell’uomo Cicerone giunge alla conclusione che essa sia stata voluta per favorire la ricerca del principio. Proprio lui che ha dedicato la maggior parte della sua attività al governo della res publica e che nei periodi in cui a causa dei continui mutamenti politici di Roma era costretto a ripiegare sull’otium, ovvero sulla pura ricerca intellettuale, si è occupato, sia pure in funzione politica, di un tema speculativo di grande interesse per chi voglia conoscere il pensiero degli antichi. Parlando degli dei, Cicerone parla in realtà degli uomini e riconosce nella loro conformazione fisica l’impronta dei soli esseri cui sia dato il compito di indagare le realtà celesti: una concezione alta dell’uomo, che fonda tutta l’operosità intellettuale che Roma ha poi trasmesso all’occidente con il nome appunto di humanitas.
In modo più poetico un profeta dell’Antico Testamento vissuto nell’ottavo secolo prima di Cristo usa espressioni simili. Osea dà voce alla rampogna di Jahvè contro Israele: Il mio popolo è duro a convertirsi:/ chiamato a guardare in alto/ nessuno sa sollevare lo sguardo.
Sono voci antiche di millenni, ma il loro richiamo è sempre attuale, se si legge dall’interno delle nostre problematiche di moderni. Da molti secoli il cielo è sì luogo della ricerca, ma si è fatto in un certo senso più lontano, non solo perché strumenti sempre più potenti hanno dilatato lo spazio dell’indagine; la bellezza e l’ordine del cosmo invitano raramente a oltrepassare ciò che si vede per fissare gli occhi della mente sulle cose invisibili. Perciò spesso i moderni si concepiscono proprio solo come abitanti della terra e la usano a loro piacimento, senza l’attenzione dovuta a ciò che dà loro temporanea ospitalità.
Ma l’uomo comune sa che guardare il cielo è un modo semplice per non sentirsi solo anche nell’affollato deserto delle metropoli, è un’occasione per riflettere sulla vastità della conoscenza e più ancora di tutto quello che c’è. Non dovrebbe essere difficile a questo punto formulare la domanda che rende veramente uomini, alla quale Leopardi ha dato voce altissima: A che tante facelle?/ che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? che vuol dir questa/ solitudine immensa? ed io che sono?
Anche se la domanda rimanesse senza risposta, essa darebbe dimensione adeguata alla vita dell’uomo. E qualora egli accogliesse la risposta – Padre nostro che sei nei cieli – la sua dignità di creatura ragionevole e libera troverebbe l’abbraccio.