La paura connota la condizione umana e tanti sono i mezzi con cui di norma viene contrastata. La vita sociale, il pensiero, la preghiera, il gioco hanno anche lo scopo di distogliere l’animo dall’angoscia che in tutti i tempi ha assalito gli uomini, e non di rado i più sensibili e intelligenti. Gli scrittori hanno più volte indagato su questa componente essenziale dell’animo umano, mostrando come sia possibile e fecondo convivere con una debolezza che la nostra società tende a nascondere spesso sotto la maschera di una falsa sicurezza. Essa può costituire qualcosa di più profondo del coraggio e diventare, non solo nella letteratura, via a una percezione della vita più corrispondente alla realtà delle cose.
Nella protagonista del romanzo L’ultima al patibolo, pubblicato ottant’anni fa nel 1931, l’autrice, Gertrud von le Fort, raffigura la paura profonda, patologica nel personaggio di Bianca de la Force. Personaggio letterario inserito nell’episodio storico del martirio delle Carmelitane di Compiègne, uccise dalla ghigliottina nel 1794, negli ultimi sanguinosi giorni del Terrore e beatificate nel 1906 da Pio X, Bianca è una giovane di nobile casato, che chiede di entrare al Carmelo per sfuggire alla paura del mondo che la assale.
Le circostanze drammatiche della sua nascita probabilmente le hanno impresso una debolezza che contrasta del tutto con il suo cognome, “come se il suo grande sguardo infantile e pavido si spingesse al di là della forte struttura dell’esistenza solida e reale su di un mondo di fragilità spaventosa”. Forse per questo la vocazione di Bianca non è combattere con la fede la propria paura, non ne sarebbe capace. Il suo nome di religiosa, Bianca dell’Agonia di Gesù, segnala la sua partecipazione al mistero, che è quello di serbarsi fedele all’angoscia, di restare nell’orto degli ulivi a far compagnia al Signore nell’ora più buia della sua vita di uomo.
Georges Bernanos riprende la singolare fisionomia di questa fragile donna nei Dialoghi delle Carmelitane e ne fa l’emblema di un’impossibile unità tra disperazione e pace. È ciò che impressiona la sua priora, che le permette, contro ogni regola e contro la stessa saggezza umana, di vivere nel chiostro e che in punto di morte le raccomanda: “Figlia mia, qualunque cosa accada, non uscite dalla semplicità, siate sempre questa cosa dolce e maneggevole nelle Sue mani! I santi non si irrigidivano contro le tentazioni, non si ribellavano contro se stessi, la ribellione è sempre opera del diavolo; e soprattutto non disprezzatevi mai! È estremamente difficile disprezzarsi senza offendere Dio in noi. In qualsiasi circostanza pensate che il vostro onore è sotto la custodia di Dio. Dio ha preso a suo carico il vostro onore, ed esso è più sicuro nelle Sue mani che nelle vostre”.
In effetti c’è qualcosa nella paura propria e altrui che suscita non compassione, non comprensione, ma un malcelato fastidio, che si muta facilmente in disprezzo. Bernanos descrive il parroco di Ambricourt del Diario di un curato di campagna, alcolista per una tara famigliare, come un uomo pieno di incertezza e di paura nel suo zelo pastorale, che giunge però ad accettare il proprio limite. Al termine della sua breve vita annota sul suo diario: “Quella specie di diffidenza che avevo di me, della mia persona, si è dissipata, credo, per sempre. Questa lotta è giunta al suo termine. Non la capisco più. Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia. Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse vinto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo”.
E così in faccia alla morte, non desidera il coraggio degli eroi: “Giacché nulla mi è più estraneo d’una morte stoica, perché mi dovrei augurare la morte degli impassibili? Se entrassi in Paradiso sotto questo travestimento, mi sembra che farei sorridere il mio Angelo custode. Perché dovrei inquietarmi? Perché prevedere? Se avrò paura, dirò: ‘Ho paura’, senza vergogna”.