Nell’omelia della Messa dell’Epifania papa Benedetto XVI ha parlato della stella dei Magi e ha osservato che “nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all’unico Dio, creatore del cielo e della terra”.
Guardando le stelle gli uomini si sono orientati nel buio della notte, hanno solcato i mari e hanno conquistato le terre, poi hanno dato loro il nome per riconoscerle più facilmente e sui loro strani raggruppamenti hanno inventato leggende, le hanno tramandate con infinite varianti, hanno invocato la loro luce nel pericolo. Il cielo stellato affascina l’uomo con il suo splendore e il suo mistero e spinge la ragione a interrogarsi sull’origine delle cose. Le stelle indicano qualcosa che va oltre la pura osservazione. Per questo forse scrittori e poeti le hanno guardate così spesso da farne oggetto privilegiato della loro espressione.
Nella Bibbia la promessa della fecondità fatta ad Abramo ha il suo segno nella volta stellata: “Guarda le stelle, se le puoi contare. Così sarà la tua discendenza”. La voce dei salmi vi scopre la sproporzione tra Dio e l’uomo e insieme una incredibile familiarità: “Se guardo il cielo che hai costruito, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai l’uomo, che di lui ti rammenti?”. I lirici greci hanno fatto dono alla cultura occidentale di notturni pieni d’incanto, come questo di Ibico: “Ardano attraverso la notte lungamente/ le stelle lucentissime”.
Perfino san Pietro, pescatore di Galilea che di stelle doveva intendersene parecchio, sembra diventare poeta quando nella sua seconda lettera raccomanda ai cristiani di volgere l’attenzione alla parola dei profeti, “come a lampada che brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori”.
Sarebbe troppo lungo e comunque impossibile nominare anche solo nella storia della poesia italiana a cominciare dalle stelle di san Francesco, le suggestioni che esse hanno evocato, i paragoni che hanno suggerito, i concetti che hanno chiarito, gli amori che hanno velato. Se poi si aggiungesse la bellezza delle stelle nelle canzoni popolari in ogni regione d’Italia, l’elenco diventerebbe quasi interminabile.
C’è però una pagina tratta da un film di Fellini, La strada, che rimane nella memoria di tanti per la sua tenerezza piena di ragione e di umanità. È il dialogo tra Gelsomina, la povera piccola aiutante di un rozzo saltimbanco girovago, Zampanò, e il Matto, un acrobata che vive sempre su un filo teso nel vuoto. Gelsomina si confida col Matto: “Mi sono stufata di fare l’artista, sono convinta di non servire a nulla. Sono stanca di vivere. Che cosa ci faccio al mondo?”
E lui cerca di aiutarla: “Con me faresti l’artista? Io che lo so fare bene ti insegnerei a camminare sul filo degli equilibristi. Gireremmo il mondo. Ti piacerebbe? Tu però che dici di non servire a niente, lo sai che il tuo padrone Zampanò non ti terrebbe un sol giorno se non gli servissi a qualcosa… Forse Zampanò lo fa perché ti vuol bene, solo che ha un caratteraccio! Ma non è colpa sua…”
Gelsomina un po’ si commuove: “Poveraccio!”
Il Matto continua: “Eh sì, poveraccio. Se tu non restassi con lui, chi gli resterebbe insieme? Tu dici di non servire a niente; lo sai che tutte le cose che esistono servono a qualcosa? Per esempio anche un sasso?”
“Quale?” Chiede lei.
“Uno qualunque, quello lì per esempio”.
“E a che cosa serve?”
“Che ne so io? Se lo sapessi sarei il buon Dio. Ma a qualcosa serve. Ma pensaci un po’, se il sasso che è così poca cosa è importante, ti immagini tutto il resto, le stelle…”
I sassi e le stelle sono silenziosi. Ma la loro semplice presenza rinvia al senso che ogni uomo cerca, anche se non se ne accorge, impigliato com’è nelle sue faccende quotidiane. Poi un Matto qualsiasi, o il cammino dei Re Magi danno voce a quel silenzio e la vita così spesso opaca ritrova una luce da seguire.