Il 6 febbraio di vent’anni fa moriva Maria Zambrano. Il grande affetto che la legò a suo padre costituisce uno dei fulcri del suo pensiero insieme filosofico e poetico, capace di giungere al fondo della vita senza perdere la concretezza dell’occasione in cui essa si manifesta. L’eco di questo legame si avverte in un saggio intitolato Verso un sapere dell’anima:

“Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome. Finché la nostra vita individuale dura, sarà segnata da questo nome e grazie ad esso smettiamo di essere uno per essere qualcuno di ben definito. La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli, ed essere figlio significa dover rispondere, doversi giustificare di fronte a qualcosa di inappellabile. E’ anche fiducia, credere all’ombra di una forza protettrice, che offre un riparo di cui non si metta in dubbio forza e clemenza. È questa l’educazione fondamentale su cui deve fondarsi qualsiasi cultura successiva, è l’esperienza prima della vita, l’incontro originario e decisivo da cui proviene tutto il resto. È insostituibile.
È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, dar credito ad alcunché, credere, se non siamo cresciuti così, sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare, sentendoci osservati da uno sguardo di fronte al quale non è possibile alcuna simulazione, sentendo la nostra fragilità connessa a un principio invulnerabile. Nessun terribile avvenimento successivo potrà aver ragione di questa educazione, se ha avuto luogo; nessuna catastrofe potrà portarsi via questa fiducia originaria, nessun rancore potrà cancellare nell’anima il peso della tenerezza venuta dall’alto. Nessuna ingiustizia potrà sradicare dall’anima la fiducia ingenua nella vita di chi viene guidato paternamente nei suoi primi passi”.

Anche Seneca è per Maria Zambrano una figura paterna, autore molto amato, forse per la comune origine spagnola e per la persistenza dell’antico filosofo nella cultura popolare della sua terra. Il profilo di Seneca da lei tracciato è una vera riscoperta per il lettore italiano, che conosce il maestro dello stoicismo, lo scrittore dallo stile spezzato, spesso oscuro e difficile da tradurre, l’uomo a cui si rimprovera il fallimento nell’educazione di Nerone e l’incoerenza tra i costumi e la dottrina, a cui si riconosce la dignità di una vecchiaia appartata e la fortezza nel suicidio.

Poco di tutto ciò nella corposa introduzione della Zambrano a una antologia che raccoglie brani della produzione di Seneca. La sua figura, più che nell’impensabile ignominia dei suoi tempi, è inserita  nella lunga serie dei filosofi che a partire da Socrate regalano all’occidente il culto della ragione intera. Egli è un sapiente, “un padre molto virile e molto materno insieme”, che sostiene con la sua forza il ragionare piegato sulla complessità che anche la vita più semplice porta con sé. La sua paternità parte da una compassione per la fragile puerilità dell’uomo e si esercita nel portargli una consolazione che non è un semplice anestetico, ma la generazione di un’anima addolcita e per così dire rassegnata. Egli è il maestro di costumi più citato nel forbito linguaggio dei predicatori e dei sermoni andalusi. La sua morale  parte dalla disillusione del tempo che fugge, dalla morte che sovrasta l’esistenza, ma non è una morale dell’inattività. La sua prima regola è il lavoro: non una azione precipitosa o un irrequieto andare e venire, ma un agire che modifica le cose, un atto che racchiude fede, volontà e amore.

Alcune delle sue massime racchiudono una saggezza che sembra quasi cristiana: “Ricerchiamo un bene che non sia apparente, ma solido e costante e bello d’interiore bellezza, e portiamolo alla luce. Non è lontano: basta soltanto sapere dove tendere la mano”.

Decisamente originale è la posizione della filosofa spagnola rispetto al femminismo. Nel 1928  firma per il giornale El Liberal una rubrica titolata Donne. L’assenza delle donne dal contesto politico spagnolo è allora totale e desolante e va imputata anche alla loro volontaria resistenza al cambiamento.

“Nessuno può pensare che la donna abbia colmato la sua ansia liberatrice con la cosiddetta emancipazione economica. No, perché questa emancipazione è piuttosto un insuccesso del quale la donna si dovrà consolare con ben più alte realizzazioni. L’ideale femminista, per usare il vecchio termine, sta al di là della emancipazione economica, che non è altro che un primo passo tristemente necessario”.
E avverte:
“Di fronte a questo cambiamento femminile l’uomo si impaurisce ed avverte una nostalgia malinconica per quei tempi in cui le donne non avevano altra occupazione che quella di soddisfare le sue esigenze erotiche e domestiche. E’ stato così rapido il cambiamento della donna nelle sue esigenze che l’uomo, sconcertato, inadeguato, non è in grado o non vuole, in genere, soddisfarle”.