Sul ruolo degli intellettuali nell’attuale crisi dell’Irlanda ha scritto Enrico Reggiani su questo giornale, paragonandolo a quello che alcuni scrittori ebbero in epoche analoghe. James Joyce, tra gli altri, descrive la paralisi della società irlandese all’inizio del Novecento. La sua relazione con l’Irlanda è critica fin dagli anni giovanili, dopo il rigetto della fede cattolica in cui era stato educato e con la decisione di dedicare la propria vita all’arte. La via dell’esilio che lo porta, tra le altre città, a Trieste e a Parigi, non spegne però nella mente di Joyce il pensiero di Dublino. Tra il 1904 e il 1907 vi scrive appunto i quindici racconti di Gente di Dublino. Egli chiama quel libro “il figlio che ho portato per anni e anni nel grembo dell’immaginazione”, ma esso lo fa aspettare molto per venire alla luce: ciò avverrà solo nel 1914, per intervento di Ezra Pound, e dopo il rifiuto da parte di una quarantina di editori.
Il testo venne letto dai primi critici in chiave naturalistica, come la descrizione analitica, sarcastica e corrosiva di luoghi e atmosfere di Dublino. In seguito l’interesse si spostò verso gli aspetti più simbolici ed esoterici dell’opera. Vero è che nella deplorevole condizione di vita degli abitanti di Dublino Joyce raffigura la vita meschina di una città moderna. Per lui Dublino è il centro della paralisi politica, religiosa, culturale e sociale non solo dell’Irlanda, ma dell’epoca in cui vive. Pur rifiutando il cattolicesimo, la sua patria, la sua cultura, non fa che parlare di loro, segno di un’appartenenza molto profonda.
La scelta di non cooperare attivamente ai movimenti di rinascita che pur vi si agitano prelude all’impegno per un altro modo di rendersi utile, e cioè scrivere. La cosa più interessante di questi racconti impeccabili è l’epifania che in ognuno di essi, a un certo punto, accade: un elemento trascurabile, una musica, un oggetto diventano rivelazione di una verità. Da questo punto di vista è ben spiegabile il rapporto di stima che legò Joyce a Montale.
In Un increscioso incidente, il protagonista è James Duffy, un banchiere di mezza età che vive un’esistenza monotona e priva di contatti sociali. Appassionato di musica classica, a un concerto conosce Emily Sinico, una donna sposata e scopre che si tratta di una persona intelligente e sensibile. Grazie alla frequente assenza del marito di lei, i due si incontrano più volte. Duffy crede di aver trovato qualcuno con cui confidarsi e parla con lei di argomenti personali. Ma una sera la signora rivela a Duffy il suo affetto: da allora lui rifiuta di vederla. Trascorrono gli anni. Una sera, mentre sta cenando in una locanda, legge sul giornale che Emily è morta travolta da un treno, forse suicida. Dopo la rottura della loro relazione lei si era data all’alcol. Duffy dapprima disgustato dall’aver consegnato i suoi segreti a una donna di così basso profilo morale, si rende conto, poi, che la realtà è ben diversa. Ecco l’epifania:
«Erano le nove passate quando lasciò l’osteria. Era una notte fredda e buia. Entrò nel parco dal primo cancello e camminò sotto gli alberi spogli. Percorreva gli stessi viali vuoti che avevano percorso insieme quattro anni prima. Perché aveva rifiutato la vita? Perché l’aveva condannata a morire? Sentiva tutta la sua natura morale andare in frantumi. Nell’ombra del muro del parco scorse delle figure sdraiate. Quegli amori venali e furtivi lo riempivano di disperazione. Imprecò alla rettitudine della propria esistenza: sentiva di essere stato escluso dal banchetto della vita. Una sola creatura umana gli aveva dimostrato amore ed egli le aveva negato vita e felicità. La notte taceva. Sentì che era solo».
È evidente il carattere realistico e insieme simbolico dell’ambiente: lo squallore di una locanda, il buio della notte, il parco spoglio. La solitudine e gli amori furtivi. La morte della donna conosciuta e la consapevolezza di avere rifiutato la vita in nome di una malintesa integrità morale. Ce n’è d’avanzo per una critica sociale acuta, per una rinascita quasi implorata.
Tra le righe non c’è solo la denuncia. C’è, anche se sottaciuta, la speranza: questa è la forza di ogni vero scrittore.