Nel capitolo 49 della sua Regola, san Benedetto parla della Quaresima, raccomandando che almeno in questo periodo si custodisca l’integrità della vita e si riparino le trascuratezze in cui scorrono gli altri giorni dell’anno. Egli insiste sul fatto che le rinunce consigliate riguardo al cibo, alle bevande, alla pigrizia, alla loquacità, alla grossolanità del linguaggio sono motivate da qualcosa di più grande: la gioia dell’attesa della Pasqua.
Con Gesù risorto avviene qualcosa di veramente nuovo, il compimento dell’attesa dei profeti. Un piccolo episodio della Bibbia aiuta, come un’immagine lontana, a intuire la portata di questo cambiamento nel mondo e nella situazione dell’uomo. Il profeta Geremia si reca nella bottega del vasaio, ne osserva il lavoro al tornio: se il vaso che egli sta modellando si guasta, con la stessa creta rifà un altro vaso. Così opera il Signore: “Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele” (Ger. 18,6).
Le vicende della vita personale e sociale sono spesso confuse e talvolta è difficile intravedere il loro significato, ma l’annuncio del Signore risorto, sempre ripetuto dalla Chiesa come il suo tesoro più prezioso, offre a tutti gli uomini la possibilità di affidarsi alla sua luce.
Nelle produzioni poetiche più drammatiche, come il Dies irae, attribuito a Tommaso da Celano e conosciuto attraverso la musica di Mozart, si intrecciano le immagini del giudizio finale e la memoria dell’opera della salvezza. La coscienza del peccato dei medievali va di pari passo con quella della presenza di Dio, ma in questa sequenza il suono della tromba che convoca ciascuno a render conto della sua vita non copre la voce che chiede il perdono. La maestà di Dio non schiaccia sotto il peso della colpa, ma offre il rimedio di un’acqua di misericordia:
Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis!
(Re di terribile maestà, che gratuitamente salvi gli uomini che hai voluto salvare, salva anche me, sorgente d’amore).
Il cuore della composizione è la domanda fiduciosa, perché la regalità del Signore si piega sull’uomo assetato di perdono. La stessa severa dolcezza guida anche la terzina con cui l’edizione critica di Oxford conclude la sequenza:
Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere curam mei finis.
(Ti supplico umilmente prostrato, con il cuore spezzato, come cenere: prendi a cuore il mio destino).
La cenere richiama la pochezza dell’argilla del vaso di Geremia, la supplica non è rivolta all’inflessibilità di un giudice, ma alla pietà che solleva il misero dalla polvere, l’incombere della morte è affidato alla vita del Risorto. La fine di ogni cosa diventa una cosa sola con il Fine.
Il senso complessivo, al di là delle traduzioni che sono spesso imprecise, non è l’avvilimento dell’uomo, ma l’avverarsi della sua natura: debole, confuso, peccatore, sostenuto dalla grandezza e dall’amore di Dio.
Un testo più antico, conservato tra le opere spurie di san Bernardo, riprende il tema di Colui che porta il peso dell’uomo con l’immagine evangelica del buon pastore, più tenera forse, ma non meno carica di venerazione per l’ineffabilità del sacrificio e della gloria di Cristo:
Sono alte, Signore, le tue spalle, e forti.
Le tue spalle giungono fino al trono del Padre,
e lassù Tu riconduci l’ultima delle tue cento pecore,
Tu riconduci me.
Va’ sicura, ormai, piccola pecora del suo gregge,
Cristo ti porta sulle sue spalle, non temere.