Giulio Cesare tramanda alla storia il nome di uno dei suoi centurioni, Publio Sestio Baculo, raccontando l’eroismo di un subalterno quando tra i latini veniva in genere celebrato solo il comandante dell’esercito. E’ un momento difficile nella battaglia contro i Nervi. Baculo è ferito al punto di non poter più reggersi in piedi; in una situazione critica, in cui tutte le difese sembrano crollare, egli afferra lo scudo di un soldato, riprende il combattimento, esorta i compagni e ne rinvigorisce l’animo, fino a respingere l’attacco nemico. Non diversamente agisce in una successiva occasione, quando trascina con il suo esempio i compagni e solo a fatica viene salvato, gravemente ferito. In ambedue i passi, si sente nella prosa imparziale di Cesare la stima per il valore di questo soldato. Il suo eroismo a tanti secoli di distanza è noto solo ai conoscitori del De bello gallico.
Diversa la sorte di altri due centurioni, quelli ricordati nei Vangeli; i loro nomi non sono noti, non hanno compiuto imprese gloriose, ma hanno avuto il dono di conoscere Gesù.
Il primo è quello che gli chiede di guarire un suo servo ammalato. Siamo a Cafarnao, dove il Signore aveva chiamato i primi discepoli. Egli vi ritorna dopo il discorso della montagna. La città brulica di gente affaccendata per la pesca, per il commercio, per le mille faccende che animano la vita sociale. C’è anche una guarnigione romana, che presidia una terra sperduta ai margini dell’Impero, con il compito di mantenere l’ordine tra gente litigiosa. Il centurione che la comanda sa delle guarigioni che Gesù opera nei dintorni, suscitando sorpresa e sconcerto tra i giudei. Così chiede il suo intervento per un servo malato che gli è molto caro e trova sostenitori addirittura tra gli anziani, che intercedono per lui presso Gesù: “Egli merita che tu gli faccia questa grazia, perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga”.

Il Signore acconsente e si incammina verso il presidio romano. Conoscendo gli usi del popolo ebraico,  il centurione  gli chiede di non entrare a casa sua, ma di intervenire anche con una sola parola, perché “anch’io sono un uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va’ ed egli va, a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo ed egli lo fa”.
Nelle sue parole c’è la lealtà di riconoscere la condizione sua e di tutti: l’uomo non è padrone di se stesso, neppure quando ricchezza e forza gliene danno l’illusione. C’è la fierezza di un esercizio giusto dell’autorità in nome della disciplina militare. C’è infine la fiducia riposta in un uomo, Gesù, che compie il bene in modo inaudito. Per questo egli ha l’ardire di chiedere la guarigione del proprio servo, la ottiene e merita la cosa più impensabile: l’ammirazione del Signore, che si rivolge alla folla che lo segue e afferma di non aver trovato neanche in Israele una fede così grande.
Il secondo centurione è quello che comanda i soldati romani che hanno crocifisso Gesù e hanno assistito alla sua morte. L’evangelista Marco scrive le parole che egli ha pronunciato  a quella vista, nello sconvolgimento degli elementi:  “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. La lealtà di un uomo, estraneo e nemico di Israele, testimone di quanto era appena avvenuto sul Golgota,  permette a papa Benedetto di affermare che “sotto la croce prende inizio la Chiesa dei pagani”.