Il punto è un po’ lo stesso che dicemmo la scorsa settimana parlando de Il talento del calabrone: quando il cinema italiano contemporaneo guarda all’estero, soprattutto di prodotti di genere, il passo dall’esportazione all’imitazione è breve. Per La belva, diretto da Ludovico Di Martino (al secondo film da regista dopo essersi distinto come regista della serie Skam), il discorso è ancora più complesso.



Perché il film di Di Martino (a differenza del film di Cimini), che racconta di un ex militare delle forze speciali che deve lottare per ritrovare la figlia rapita, è un pensato per il cinema, che ha l’ambizione produttiva e visiva del grande schermo e che su quello sarebbe dovuto uscire, prima di ripiegare su Netflix a causa della pandemia. Questa ambizione rende il film, scritto da Claudia De Angelis, Di Martino, Nicola Ravera Rafele con Andrea Paris, ancora più scivoloso, perché mette in mostra i suoi limiti come opera e anche come operazione, rende evidenti i problemi del sistema industriale italiano.



Di Martino, assieme al produttore Matteo Rovere per Groenlandia, guarda a Luc Besson, alle sue produzioni franco-americane come Io vi troverò di cui questo La belva è un remake non ufficiale, e appronta un film di alta perizia e professionalità tecnica, in cui la cura della fotografia di Luca Esposito e del montaggio di Francesco Loffredo danno l’impressione di trovarci di fronte a un prodotto di alto bordo.

Poi però, a un occhio magari più smaliziato, tutto questo appare più come il modo per coprire delle falle che non un progetto estetico: La belva sconta un testo e un racconto scadenti, in cui tutto è riciclato con poca accortezza, ma sarebbe un problema di poco conto se tutto il resto funzionasse a regola d’arte, ma Di Martino invece si inceppa proprio in quello che porta lo spettatore a credere a ciò che vede, ovvero l’atmosfera. Vuoi per la caratterizzazione dei personaggi, vuoi per i luoghi in cui si muovono, il film appare come uno scimmiottamento basico, anziché la reinterpretazione, la variazione su un tema come fatto dagli italiani nei casi migliori, sia il giallo all’italiana, sia Gomorra o Romanzo criminale.



In questo caso la copia mostra tutti i segni dell’imitatore, si percepisce lo scarto e si rischia di sorriderne, come quando vediamo un imitatore – anche il più bravo – imitare una voce conosciuta: hai voglia a guardare a Leon e ai deliri di Gary Oldman, quando hai un caratterista italiano che si esalta uccidendo qualcuno a suon di Mozart la risata scatta spontanea e involontaria. E il peggio è che, diventando la regia e quindi la stessa idea di cinema alla base del film, del tutto decorative e superflue, la rappresentazione della violenza e dei personaggi finisce per diventare morbosa e compiaciuta.

Al di là però delle questioni critiche, viene da chiedersi se ha davvero senso un prodotto del genere in un mercato come il nostro: perché è vero che film d’azione puri non se ne producono da decenni, e che la varietà della produzione rende più sana l’industria, ma ci si è mai chiesti perché film così non si sono più prodotti? Ci si è chiesti perché il pubblico dovrebbe vedere copie quando ha originali (non solo americani, anche europei e orientali) spesso fatti molto meglio? C’è un pubblico cinematografico per un cinema italiano così e, se la risposta pare negativa, come si fa a toglierlo dalla tv? Dubitiamo che La belva sarebbe stata la risposta, pandemia o meno.