La Bohème di Giacomo Puccini è una delle opere più eseguite. E anche una delle più amate. Non solo in Europa (ricordo magnifiche edizioni sia a Parigi che a Budapest), ma in tutto il mondo. Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana.



Una nuova produzione è stata presentata dal Teatro dell’Opera di Roma il 30 luglio a conclusione della stagione estiva al Circo Massimo. Si replica sino al 5 agosto. È uno spettacolo che merita di essere visto e ascoltato, ma che non ha il livello di assoluta eccellenza di quello presentato nel giugno 2018 al Teatro Costanzi, la sede principale del Teatro dell’Opera. Una delle ragioni è a mio avviso il tentativo di Davide Livermore (regia, scene, costumi, luci) di realizzare uno spettacolo pensato per un grande palcoscenico all’aperto, utilizzando proiezioni del visivo francese della fine dell’Ottocento. La Bohème è un lavoro intimista che si può rappresentare in un teatro all’aperto, ma con la sintassi e il lessico di un teatro al chiuso. Ricordo, all’inizio degli anni Settanta, una meravigliosa Bohème (ne erano protagonisti Renata Scotto e Franco Corelli) portata dal Metropolitan di New York al Wolf Trap nei pressi di Washington – un palcoscenico molto grande e spettatori che oltre che nella platea e nei palchi, stavano nel prato dove era autorizzato il picnic. Si utilizzava una versione semplificata della produzione pensata da Franco Zeffirelli per la Scala nel 1963. Funzionava perfettamente.



La Bohème è sempre contemporanea. Lo era all’epoca di Henry Murger che l’aveva ambientata nella “sua” Parigi del “suo” tempo (1840-50). Lo era quando la compose Giacomo Puccini, la cui Parigi da cartolina è, in effetti, la Milano degli anni della Scapigliatura (ultima decade dell’Ottocento). Nell’ultimo capitolo delle Scene di una vita da bohème di Murger (il romanzo a cui si sono ispirati sia Leoncavallo che Puccini) è passato un anno dalla morte di Mimì. Tanto il poeta Rodolfo quanto il pittore Marcello (nonché il musicista Colline e il filosofo Schaunard) hanno fatto fortuna nelle loro rispettive professioni. Si sono pure imborghesiti. Marcello ha appena passato una notte con Musette – ma è stata “una triste notte non era più lo stesso, niente affatto!”. “La gioventù – conclude con una punta d’amarezza il pittore – ha una stagione sola”. Il nocciolo duro dell’opera non è la Parigi immaginaria 1840-50, ma l’ultima fase della giovinezza, quella della spensieratezza portata bruscamente a termine dalla morte di Mimì. Tema contemporaneo come mai, specialmente oggi in un’Italia con alta disoccupazione “intellettuale” e dei Neet (i giovani non occupati e neanche in istruzione o in formazione), come possono esserlo un poeta con velleità giornalistiche, un pittore, un laureato in filosofia e un musicista alle prime armi. Nel 2018 Alex Ollé della Fura dels Baus (e i suoi colleghi Alfons Flores e Lluc Castells) hanno colto nel giusto ambientando la parabola della fine della gioventù in un quartiere romano di periferia.



Veniamo ai punti veramente forti di questa Bohème al Circo Massimo. Sono a mio avviso tre: l’orchestra, il protagonista maschile e il coro.

La direzione d’orchestra è affidata al giovane spagnolo Jordi Bernàcer, già ascoltato a Roma in Tosca e in Aida. Bernàcer non ha dimenticato che La Bohème è un’opera in cui l’orchestra è protagonista: intrecciando una quindicina di motivi tematici, introducendo dissonanze a quelle che dieci anni dopo avrebbero fatto il successo di Richard Strauss, si creano le atmosfere per palpare la gioventù come la sola stagione che non ritorna, per passare dai momenti lievi (quasi sognatori) del primo atto al ritmo incalzante e alle terzine del secondo atto, all’inconsolabili melanconie del terzo al tragico raggiungimento dell’età adulta nel quarto. Grazie all’eccellente orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Bernàcer ha messo in risalto questa raffinata orchestrazione, che precorre la grande scrittura soprattutto dell’Europa centrale e del mondo austro-tedesco. Si è riuscito a palparlo anche in uno spettacolo all’aperto con inevitabili non desiderati rumori di fondo.

Avevo ascoltato Piero Pretti in ruoli donizettiani e verdiani (un Trovatore a Ravenna). È la prima volta che lo ascolto in un difficile ruolo pucciniano, parte che insiste sul registro di centro, ma richiede anche uno squillo trasparente e l’uso della “mezza voce”. È stato molto bravo regalando anche dei bellissimi “legato” e un attento uso generoso del “do”.

Il coro ha due momenti in La Bohème: gran parte del secondo quadro e l’inizio del terzo. Occorre congratulare Roberto Gabbiani che lo ha preparato per come ha affrontato le richieste della regia nell’affollato (e un po’ confuso) secondo quadro.

Mimì era Vittoria Yeo, a volte eccessiva nel volume; devo ammettere che ogni volta che ascolto questa opera ho il ricordo di Mirella Freni e Renata Scotto. Musetta è una buona Sara Bianchi. Marcello un articolato Luca Micheletti, Colline e Schaunard Gabriele Savona e Simone Del Savio. Domenico Colaianni interpreta i due brevi ruoli di Benoit e Alcindoro. 

Teatro esaurito. Molti applausi.

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