Non c’è due senza tre. È approdata sugli schermi televisivi di Rai3, venerdì 8 aprile, l’ultima tappa di un progetto cinematografico che ha visto la luce durante la pandemia: un nuovo film-opera prodotto dal Teatro dell’Opera di Roma e da Rai Cultura, La Bohème di Giacomo Puccini, con la direzione di Michele Mariotti, direttore musicale della Fondazione capitolina, e la regia di Mario Martone. Con il capolavoro di Puccini, dopo lo straordinario successo dei due titoli che l’hanno preceduto nel 2020-21, Il barbiere di Siviglia (Premio Abbiati per la migliore produzione musicale) e La traviata entrambi firmati sempre da Mario Martone con la direzione musicale di Daniele Gatti, l’Opera di Roma prosegue nel segno della sperimentazione, del cambiamento e della creatività, verso un linguaggio radicalmente innovativo del teatro d’opera alla ricerca di un nuovo pubblico. Non si tratta di opere prodotte in studio dalla Rai, ma come se si fosse in teatro e che apparivano sul piccolo schermo in bianco e nero, come si faceva negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso: un tentativo di questo genere (Adriana Lecouvreur fatto dal Teatro Comunale di Bologna durante la pandemia) ha avuto poco successo, ma di spettacoli concepiti per essere usufruiti in televisione (con tutte le opportunità che il mezzo offre), come, ad esempio, La traviata prodotto (sempre durante i momenti bui della pandemia) dal Teatro Massimo Bellini di Catania e dal Canale Classica HD.
Tutti conoscono La Bohème di Giacomo Puccini perché è una delle opere più eseguite e delle più amate. Non solo in Europa (ricordo magnifiche edizioni sia a Parigi che a Budapest), ma in tutto il mondo. Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana.
La scorsa estate il Teatro dell’Opera di Roma ha proposto una nuova produzione a conclusione della stagione estiva al Circo Massimo. Spettacolo che ha meritato di essere visto e ascoltato, ma che non aveva il livello di assoluta eccellenza di quello presentato nel giugno 2018 al Teatro Costanzi, la sede principale del Teatro dell’Opera. Una delle ragioni è a mio avviso il tentativo di Davide Livermore (regia, scene, costumi, luci) di realizzare uno spettacolo pensato per un grande palcoscenico all’aperto, utilizzando proiezioni del visivo francese della fine dell’Ottocento. La Bohème è un lavoro intimista che si può rappresentare in un teatro all’aperto, ma con la sintassi e il lessico di un teatro al chiuso. Ricordo, all’inizio degli anni Settanta, una meravigliosa La Bohème (ne erano protagonisti Renata Scotto e Franco Corelli) portata dal Metropolitan di New York al Wolf Trap nei pressi di Washington – un palcoscenico molto grande e spettatori che oltre che nella platea e nei palchi, stavano nel prato dove era autorizzato il picnic. Si utilizzava una versione semplificata della produzione pensata da Franco Zeffirelli per la Scala nel 1963. Funzionava perfettamente.
La Bohème è sempre contemporanea. Lo era all’epoca di Henry Murger che l’aveva ambientata nella “sua” Parigi del “suo” tempo (1840-50). Lo era quando la compose Giacomo Puccini, la cui Parigi da cartolina è, in effetti, la Milano degli anni della Scapigliatura (ultima decade dell’Ottocento). Nell’ultimo capitolo delle Scene di una vita da bohème di Murger (il romanzo a cui si sono ispirati sia Leoncavallo che Puccini) è passato un anno dalla morte di Mimì. Tanto il poeta Rodolfo quanto il pittore Marcello (nonché il musicista Colline e il filosofo Schaunard) hanno fatto fortuna nelle loro rispettive professioni. Si sono pure imborghesiti. Marcello ha appena passato una notte con Musetta – ma è stata “una triste notte non era più lo stesso, niente affatto!”. “La gioventù – conclude con una punta d’amarezza il pittore – ha una stagione sola”. Il nocciolo duro dell’opera non è la Parigi immaginaria 1840-50, ma l’ultima fase della giovinezza, quella della spensieratezza portata bruscamente a termine dalla morte di Mimì. Tema contemporaneo come mai, specialmente oggi in un’Italia con alta disoccupazione “intellettuale” e dei Neet (i giovani non occupati e neanche in istruzione o in formazione), come possono esserlo un poeta con velleità giornalistiche, un pittore, un laureato in filosofia e un musicista alle prime armi. Nel 2018 Alex Ollé della Fura dels Baus (e i suoi colleghi Alfons Flores e Lluc Castells) hanno colto nel giusto ambientando la parabola della fine della gioventù in un quartiere romano di periferia.
“La Bohème – afferma a ragione il Direttore musicale Mariotti – è un’opera piena di morte perché piena di vita, i cui protagonisti esprimono gioia di vivere e paura di affrontare le responsabilità che la vita presenta”. In questa versione televisiva, la vicenda dei giovani parigini di fine Ottocento ci viene raccontata attraverso lo sguardo di Martone che associa gli amori, le amicizie gli entusiasmi le inquietudini e persino le sofferenze, a una rappresentazione della realtà immersa nel presente. “Ho voluto raccontare la storia, – dichiara il regista Martone – o per meglio dire, la vita dei personaggi di Bohème come un film della “nouvelle vague”: giovinezza, amicizia, sogni, ribellione, tradimenti, amore. Ed è incredibile quanta energia possa sprigionare ancora oggi un’opera scritta più di centoventi anni fa”. I colori ricordano o film di Truffaut quali Effetto Notte.
Il film, girato con la ripresa musicale in presa diretta, è ambientato nei Laboratori di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma, in via dei Cerchi: un affascinante edificio di archeologia industriale, tra officine per scenografi-pittori, depositi immensi di costumi e attrezzeria scenica e una falegnameria, una stupenda terrazza sul Circo Massimo e l’Aventino, è il set ideale per la rappresentazione della gioventù pucciniana e per affrontare il racconto operistico da un punto di vista nuovo: non più lo spazio vuoto della platea dei teatri al chiuso, ma lo spazio del dietro le quinte dove l’opera si costruisce. La stessa orchestra viene diretta dal Maestro Michele Mariotti negli immensi spazi del salone inondato di luce. Una regia che affascina e incanta. Vi contribuisce non poco l’attenta recitazione
L’orchestra del Teatro dell’Opera (che può essere contata tra una delle migliori delle fondazioni liriche italiana) è guidata da Michele Mariotti. Devo dire che conoscevo Mariotti verdiano e rossiniano (e anche quello de Les dialogues des Carmelite di Poluenc), ma non quello pucciniano. Al di sotto del sinfonismo che accompagna i quattro brevi “quadri”, Mariotti e l’orchestra scavano nei motivi musicali che sono collegati a un significato simbolico e descrittivo, fanno riferimento a un personaggio, una situazione, un oggetto e a un sentimento. Sono presenti molti sviluppi tematici che danno un senso di continuità a tutta l’opera, ma a differenza di Wagner (che sviluppava i motivi in maniere sempre più complicate), Puccini ricorre a temi che restano più o meno invariati e quindi facili da riconoscere. L’unico vero caso di sviluppo wagneriano è il motivo di Mimì del quarto “quadro”. Naturalmente, queste finezze vengono apprezzate se si dispone di un televisore con un audio a alta fedeltà
Rodolfo è interpretato da Jonathan Tetelman, Federica Lombardi veste i panni della dolce Mimì. Tetelman è un giovane tenore (nato nel 1988 in Cile ma cresciuto negli Stati Uniti) che ha trionfato proprio in La Bohème alla Semperoper di Dresda; è un tenore generoso con un registro di centro, ottimo squillo, magnifico legato ed eccellente fraseggio. Federica Lombari è nota come “soprano assoluto”, ottima in ruolo come quello di Mimì, che richiede un soprano lirico nei primi due “quadri” e uno drammatico negli altri due.
Musetta e Marcello sono interpretati da Valentina Naforniţă (nata nel 1987 in Moldavia e nota soprattutto per ruoli mozartiani) e Davide Luciano (anche lui giovane ma già con una carriera internazionale alle spalle- Berlino, Salisburgo). Sono un perfetto contrappunto alla coppia Rodolfo e Mimì. Gli altri due bohèmiens sono Roberto Lorenzi (Schaunard) e Giorgi Manoshvili (Colline). Ancora nel cast troviamo Armando Ariostini (Benoît), Bruno Lazzaretti (Alcindoro), Giordano Massaro (un venditore ambulante), Vinicio Cecere (Parpignol), Daniele Massimi (un doganiere) e Alessandro Fabbri (sergente dei doganieri). Il Coro, protagonista del secondo “quadro” (anche se in questa versione spesso “fuori scena”), è diretto egregiamente, come sempre, da Roberto Gabbiani.
La produzione è arricchita dai costumi di Anna Biagiotti; Pasquale Mari firma le luci e la direzione della fotografia.
La Rai dovrebbe programmarne repliche.
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