La quarta stagione de La casa di carta, uscita su Netflix il 3 aprile e attesissima da mesi, ci ha spiazzati tutti. Non ce l’aspettavamo, ha abbattuto tutte le aspettative che avevamo costruito con cura. Ma ci ha anche divertiti con “l’illusionismo” ingegnoso che ci ha confuso, ma, allo stesso tempo, colpito per la genialità dell’indiscusso regista Álex Pina.
Il professore, Alvaro Morte, anche questa volta, non ha smesso di stupirci con i suoi piani contorti ma sensati, ambigui ma potenti. C’è un’aperta critica ai segreti di Stato, alla polizia, a chi infanga prove. E il professore li smaschera tutti, come sempre: sia per la rapina, sia per amore (ricordiamo Lisbona catturata nella terza stagione), sia per dar giustizia a chi, purtroppo, non c’è più.
L’inizio di stagione è molto lento, si riprendono le immagini conclusive della precedente e nell’aria prevale sempre un clima di tensione e ansia. Non si sa bene chi detiene il potere nella rapina, e questo genera disastri, perché quando non c’è un piano scritto dal professore i personaggi non sanno come agire e quindi si lasciano condurre dai loro lati più istintivi, e quindi malvagi, egoisti, come nel caso contrastante tra Palermo e Tokyo, quest’ultima definita una “Maserati”.
Rio è ancora traumatizzato dalle torture avute da Alicia Serra, altra grande protagonista di questa stagione, un passo sempre avanti a tutti. Arturito invece è sempre lo stesso, Denver ci ammalia con lo stesso sorriso di sempre e Stoccolma è diventata più forte che mai. Il centro di questa stagione è sicuramente l’empatia, giocare con il ruolo della compassione umana. Si risolvono dubbi precedenti, ma se ne innescano altri. Ci sono ricordi del passato, si scoprono i lati più umani dei rapinatori e, come sempre, li giustifichiamo. È un po’ come se i loro nemici fossero i nostri. Liti continue e tradimenti, ma che alla fine si risolvono nei migliori dei modi.
Conclusivi sono i cosiddetti “missili” lanciati dal professore per fare il modo che i nemici si incolpino tra loro per poterli attaccare nel loro momento più debole. Perché il professore è un intellettuale, un filosofo, ma ha una sola pecca: non sa agire senza un piano, ma, per fortuna, questo non accade (quasi) mai.
In questa stagione non si può non fare attenzione al grande omaggio musicale italiano con le canzoni cantate a squarciagola dai protagonisti in un momento molto gioioso: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “Centro di gravità permanente” di Franco Battiato, probabilmente dopo il grande successo ottenuto con “Bella ciao”, diventata ancora di più un inno di ribellione. Forse anche per questo ci sentiamo tutti un po’ protagonisti, le cantiamo insieme a loro.
Insomma, una stagione che già alla sesta puntata ci sbalordisce, quando credevamo di avere tutto sotto controllo, concepiamo che non è proprio così, sentiamo quasi di voler agire perché non si agisce con giustizia. Ma non si può negare che, appena finita la visione, si ricerca su internet “quando uscirà la quinta stagione?”.