Il Coronavirus quest’anno ha condizionato anche il Ramadan e Abdi Latif Dahir, corrispondente keniano per il New York Times, ha raccontato in un commosso articolo la propria esperienza personale: “Perché la chiamata alla preghiera mi ha fatto piangere in questo Ramadan” è il titolo che già dice molto. Musulmano osservante, Abdi Latif Dahir rispetta il digiuno del Ramadan da quando ha 9 anni.
La chiamata alla preghiera ha suonato un pomeriggio dalla Moschea Jamia, punto di riferimento nel centro di Nairobi per i musulmani del Kenya, con cupole verdi e d’argento e molteplici minareti. I fedeli dovrebbero recarvisi, ma in questo Ramadan le porte della moschea sono rimaste chiuse, fin dalla chiusura a marzo a causa della pandemia di Coronavirus. L’autore dunque racconta che “mi sono seduto in macchina, ho abbassato i finestrini e ho ascoltato la voce del muezzin, un suono mellifluo che mi ha fatto immediatamente piangere”.
Questo è stato un Ramadan come nessun altro, anche in Kenya nonostante “soli” 50 morti circa stimati per la pandemia: il mese sacro nel 2020 ha dunque portato “il dono della solitudine“. Con un coprifuoco nazionale che si estende dal tramonto all’alba, milioni di musulmani in Kenya hanno dovuto accontentarsi di cenare da soli e osservare le preghiere serali da casa.
IL RAMADAN AI TEMPI DI CORONAVIRUS: UN RACCONTO DAL KENYA
Le restrizioni imposte suscitano il rammarico di Abdi Latif Dahir perché, con 21 fratelli e 17 nipoti, il pasto iftar per rompere il digiuno quotidiano “è sempre stato per me un affare di famiglia“, con tante prelibatezze gustate tutti insieme, naturalmente però non quest’anno, nel quale ognuno è dovuto rimanere a casa sua, condividendo questo momento solo con le persone conviventi sotto lo stesso tetto.
Non solo cibo: l’autore ricorda che spesso in questi momenti si guardavano un episodio o due delle epopee storiche o melodrammi “che sono un pilastro della televisione araba durante il Ramadan”. Quest’anno tuttavia, non c’è dubbio sul fatto che il dramma della vita reale sia “più che sufficiente”. Così si è dovuti rimanere fisicamente separati “ma troviamo unità nei rituali del digiuno e della festa“.
Questo dunque è stato un Ramadan nel quale i fedeli musulmani hanno potuto trovare “conforto e continuità” nelle piccole cose: i samosa paneer (fagottini vegetariani fritti) inviati dalla mamma di un amico, le corse nel pomeriggio in una vicina foresta vicina quasi vuota, i messaggi dei propri cari che arrivano da tutto nel mondo e il suono dell’azan, la chiamata alla preghiera, trasmesso dalle cime dei minareti, che quest’anno ha fatto piangere pure un corrispondente del NYT.