Che cosa chiede la Chiesa all’arte? Che cosa chiede l’arte alla Chiesa? Il recente incontro tra Papa Francesco con gli artisti ha riaperto queste domande che, come una frattura ossea, sono piuttosto doloranti. Non solo, si ripete, l’arte ha divorziato dalla Chiesa, ma anche la Chiesa non sa più che cosa chiedere agli artisti. C’è una sorta di imbarazzo a parlare di questo tema: si sente la tragedia storica che esso spalanca sotto di sé e ci si sente inadeguati a ripercorrere i termini del problema, perché si comprende che occorrerebbe risalire fino a Dio sa dove quella frattura si è aperta.



Sarebbe affascinante ripercorrere questo cammino a ritroso, ma non è questa la sede per farlo. Ci sembra invece interessante osservare quando e come questa frattura pare essersi calcificata e l’osso della nostra esperienza culturale rafforzato. Tali esempi fanno nascere, inoltre, l’idea che si possa andare oltre loro stessi: l’opera d’arte quando è grande non conclude, non arresta ma spalanca sempre oltre sé, permette di immaginare altro, di “salire sulle spalle del gigante”. Ma come affrontare il tema?



Una necessaria premessa teorica ci sembra quella espressa da Luigi Giussani in un suo fondamentale testo (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli 2004): “Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta”. Questo modo di porsi rispetta la natura dell’arte e dell’avvenimento che essa è: novità irriducibile alle premesse. Simili modo l’Incarnazione che il cristianesimo annuncia: prima che accadesse non era possibile immaginarla nella forma espressiva che ha poi preso. Allora anche nel campo dei difficili rapporti tra la Chiesa e l’arte ci sembra che valga di più un momento di verità espressa che molte analisi della gravità della situazione, che pure possono servire a evitare errori di ignoranza o mala impostazione dei problemi. Questo comporta l’assumersi il rischio della inevitabile selezione e della valutazione critica delle opere.



Tra i molti esempi – di cui potremo parlare in successive puntate – partiamo da una realtà un po’ lontana da noi: la Cattedrale di Canterbury.  Nella cripta orientale, dove fu sepolto il corpo di Thomas Becket dopo il suo brutale assassinio nel 1170, è sospesa una scultura la cui forma del contorno è senza dubbio quella di un corpo umano, ma è composta di 210 chiodi provenienti dal soffitto in legno recentemente restaurato, saldati insieme senza una “pelle” di rivestimento. La scultura è quindi percettivamente aperta, senza soluzione di continuità con lo spazio intorno: lo spettatore può vedere attraverso di essa e immaginarne contemporaneamente il volume.

Levita, sembra sfidare la gravità essendo sospesa alle volte a crociera da un unico filo d’acciaio. Inoltre, a causa del naturale flusso d’aria causato dalle variazioni di temperatura dell’ambiente in cui è collocata, it floats: ruota lentamente. Questo movimento delicato e il passaggio dell’aria attraverso la scultura evocano un corpo vivo e che respira, la sua apertura lo assimila ad un ambiente in cui si può entrare, al tempio in cui è collocata, come se esso stesso, il corpo, fosse “tempio” (1 Cor, 19-20): “E non sapete voi che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, il quale avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?”.

Antony Gormley, l’autore, è tornato spesso su questo tema del rapporto tra il corpo e lo spazio. Nello straordinario Ted Talk del 2012 afferma che all’origine del suo essere diventato scultore c’è stata l’esperienza infantile di essere stato costretto in uno spazio claustrofobico per un “riposo forzato”. Quella stretta soffitta nel tempo e piano piano è diventata però, chiudendo gli occhi, “uno spazio più grande, più fresco, più oscuro, senza dimensioni, infinito”. Questo è lo spazio che, per lui, la scultura può aprirci: a partire dall’esperienza del corpo non come oggetto inerte tra le cose ma come “un campo di energia”.

Dice Gormley a proposito di Transport (questo il titolo dell’opera): “Il corpo è più un luogo che una cosa, è un luogo dove le cose accadono. Pensiero, sentimento, memoria e attesa filtrano attraverso di esso a volte rimanendo ma soprattutto passando, come noi in questa grande cattedrale con i suoi secoli di costruzione, adattamento, ampliamento e tutti i pensieri, i sentimenti e le preghiere che le persone hanno avuto e trasmesso qui. Mente e corpo, Chiesa e Stato sono polarità evocate dalla vita e dalla morte di Thomas Becket”. 

Gormley lavora dunque sullo spazio come tensione tra polarità, tra forma e apertura indefinita e infinita. In questo senso la sua interpretazione del corpo-tempio di Thomas Becket apre una dimensione di senso ulteriore: quella per cui l’uomo è attraversato da un destino che lo “apre” a identificarsi con un luogo, “la cattedrale” e con la sua funzione di essere spazio aperto al divino. I chiodi che compongono il corpo richiamano il martirio, questa estrema “vocazione” che rende la vita totalmente aperta alla chiamata di un’alterità: Dio.

Sembra di risentire brani di Murder in the Cathedral (1935) di T.S. Eliot e ispirati alla medesima vicenda. Nel dramma, quando l’arcivescovo Becket comprende che il suo antico amico d’infanzia e ora Re Edoardo II ha implicitamente o esplicitamente, dato assenso per la sua uccisione, così decide di parlare al suo popolo nell’omelia della messa di Natale: “Un martirio non è mai un disegno d’uomo; poiché vero martire è colui che è divenuto strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio; non perduta, ma trovata, poiché ha trovato la libertà, nella sottomissione a Dio. Il martire non desidera più nulla per se stesso; neppure la gloria del martirio”.

Eliot nei versi precedenti aveva rappresentato potentemente la battaglia svoltasi nella coscienza dell’arcivescovo, ed ecco superata anche l’ultima tentazione di auto-possesso: quella di cercare la “gloria del martirio”.  Nel momento supremo, mentre gli assalitori tentano di forzare le porte della cattedrale, come ha aperto se stesso al dono totale egli apre il tempio: “Aprite le porte. Spalancate le porte! Non voglio che la casa della preghiera, che la chiesa di Cristo, il santuario, sia mutato in fortezza. La Chiesa dev’essere aperta anche ai nostri nemici. Aprite le porte! Non è nel tempo che la mia morte sarà conosciuta; perché la mia decisione è presa fuori dal tempo; se volete chiamar decisione ciò cui tutto il mio essere dona pieno consenso. Lui ha dato il suo sangue per comprar la mia vita, darò il mio sangue per pagar la sua morte per me”.

Così, in una sola immagine potente e ispirata al luogo e alla sua storia, Gormley ci ha ridonato la presenza del santo martire Thomas Becket, segno di contraddizione per il potere politico, segno di trascendenza della vita umana che appartiene ad “un altro Regno” (Giovanni 18,36-38) di cui la potente architettura del gotico inglese di Canterbury è solamente come il contrafforte più basso.

Quali indicazioni questa esperienza ci ha dà? Nessuna ricetta, ma una cosa è evidente: solo l’apertura dello stupore per ciò che ci viene annunciato da questi luoghi e dalla vita che li abita può far nascere opere che travalicano anche le intenzioni degli autori e che, quasi come effetto di ritorno, valorizzano il luogo stesso, che si illumina della fiammella scaturita dall’incontro tra il fuoco della fede (anche altrui) e il fosforo di cui è costituito il nostro cuore.

 

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