La sentenza della Corte Costituzionale nr. 143, depositata il 23 luglio 2024, ha per oggetto alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Bolzano e relative alla l. 164/1982 che stabilisce le regole per il cambiamento di sesso. La legge aveva regolamentato la possibilità di accedere alla procedura prevista per questo scopo identificando precise condizioni in presenza delle quali era consentito ai richiedenti di cambiare il proprio sesso acquisito alla nascita con il sesso opposto. Tale facoltà era stata pertanto costruita non come diritto costituzionalmente garantito, bensì come diritto stabilito in via normativa dal Parlamento. Si poteva, pertanto, in senso generale, parlare di un nuovo diritto senza che tuttavia si potesse a tal fine prescindere dalla decisione in tal senso adottata in sede parlamentare.



La sentenza in esame contiene due diverse decisioni. La prima è stata ampiamente commentata in questa sede dall’on. Binetti, che pure concludeil suo intervento ricordando che – oltre aver stabilito l’incostituzionalità dell’obbligo di sottoporsi a interventi chirurgici al fine di ottenere dal giudice la modifica al proprio sesso tramite modifica anagrafica -, la Corte si è pronunciata per l’inammissibilità della seconda delle questioni poste, ossia la richiesta di dichiarare incostituzionale l’art. 1 della legge contestata nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario”, né maschile né femminile.



Perché la Corte, dichiarando inammissibile la richiesta, fa un passo indietro e decide di “non decidere” sulla questione posta alla sua attenzione? La motivazione addotta è molto chiara. La Corte afferma infatti che “l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria” (ad esempio, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” quali carceri, ospedali e simili).



Questa notazione è di estremo interesse e va tenuta in considerazione per tutti quei  casi in cui si richiede alla Consulta di intervenire a sancire nuovi diritti, derivandoli da norme costituzionali, senza che questo intervento sia adeguatamente supportato da norme di legge che dettaglino procedure ed elementi di sostanza relativi alla posizione giuridica che si vuole introdurre nell’ordinamento.

Ovviamente, ciò non significa che tale riserva di intervento parlamentare debba essere adottata in tutti i casi.  Sono più di uno i casi in cui un intervento diretto della Corte può essere ritenuto utile a identificare posizioni soggettive non sufficientemente tutelate. Questa operazione interpretativa va tuttavia compiuta con la necessaria cautela, come accade nel caso presente, in cui la dichiarazione di incostituzionalità o una decisione interpretativa (che avesse introdotto direttamente il cd. “terzo genere”) avrebbe creato elementi di disordine. Gli esempi addotti a supporto della decisione di inammissibilità sono prove evidenti dell’opportunità della scelta adottata nel caso presente.

La capacità di una sentenza di conformare l’ordinamento è infatti ben diversa da quella che proviene dalla fonte primaria; essa sola ha la capacità di entrare nel dettagli, di ordinare procedure, di identificare con precisione i destinatari degli obblighi che derivano dalle  scelte regolative. In Parlamento si discute e argomenti addotti da minoranze possono entrare  a integrare e correggere scelte che provengono dalla maggioranza. Soprattutto in argomenti che entrano in questioni eticamente controverse il rispetto di tutte le opinioni deve essere garantito perché non ogni diritto “invocato” è perciò stesso un vero e proprio diritto.

Nel caso presente la Corte non manca di sottolineare come sia molto delicato il terreno della percezione del sé, che porta in alcuni casi  alla richiesta di veder riconosciuto un proprio “diritto” a un’identità diversa da quelle fin qui riconosciute. E, tuttavia, va sottolineato che, in questo caso, la Corte riconosce al legislatore una primazia, quella secondo cui è proprio il legislatore il primo interprete della sensibilità sociale.

Senza trarre conclusioni affrettate e generali si può dunque dire che la scelta fatta sia,  in questo caso esemplare, ampiamente condivisibile.

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