I dati certificano impietosamente la crisi di un format icona dello stile di vita italiano: il bar. Fipe Confcommercio, la Federazione Italiana Pubblico Esercizio, calcola che negli ultimi dieci anni il numero di locali che svolge questa attività è calato di ben 15 mila unità. E non solo. Perché la stessa Fipe rileva anche che ogni anno cessano l’operatività almeno 10 mila imprese. E questo, letto in altra prospettiva, significa che il bar è un’attività caratterizzata da un basso tasso di sopravvivenza: su 100 imprese che avviano l’attività, a distanza di cinque anni ne sopravvivono infatti meno di 50.
“Stanno in questi numeri – dichiara Matteo Musacci, vice presidente di Fipe Confcommercio – le difficoltà che attraversa il format bar, stretto nella morsa di una competizione sempre più sfrenata e di un modello di gestione che riesce a conciliare costi e ricavi solo attraverso enormi sacrifici personali di chi ci lavora, soprattutto se si tratta del titolare e dei suoi familiari. Tenere in piedi un’azienda che deve pagare stipendi, canoni di locazione esagerati e attualmente bollette fuori controllo, con caffè e cappuccini al prezzo di poco più di un euro – prosegue Musacci – sta diventando sempre più difficile. Se a questo aggiungiamo che anche muovere i listini per adeguarli all’inflazione è complicato, il rischio che i conti non tornino è evidente. Occorre ripensare il modello di business partendo dal presupposto che tenere aperto 7 giorni su 7 per oltre 14 ore al giorno non sempre è economicamente sostenibile. E aggiungo che non lo è anche guardando alla sfera personale di chi, come capita a molti di noi piccoli imprenditori, è costretto a garantire una presenza continua sacrificando vita personale e affetti”.
Il bar insomma è chiamato a ripensare la sua formula. Ed è chiamato a farlo in fretta, perché a rischio c’è un settore nel quale lavorano, tra dipendenti e indipendenti, più di 300 mila persone. Senza contare che, oltre all’aspetto occupazionale, la crisi del format avrebbe riflessi anche sulla vita delle nostre città, dal momento che si tratta di un canale di consumo contraddistinto da una forte diffusione territoriale – si contano 2 imprese ogni mille abitanti, in 9 comuni su 10 è presente almeno un bar – e da un’ampia apertura oraria, che spesso abbraccia 7 giorni su 7 per una media di 14 ore giornaliere. Senza contare che sempre questo format rappresenta uno sbocco lavorativo e dunque uno strumento di integrazione importante per la comunità di immigrati presenti in Italia: sono infatti oltre 12 mila, il 12,2% del totale, i bar gestiti da stranieri con punte che in alcune Regioni come la Lombardia sfiorano il 20% e in altre, come Veneto e in Emilia Romagna, addirittura superano questa percentuale.
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