Negli ultimi due mesi il mondo del calcio è stato scosso da vicende che, sommate alla pandemia in corso nell’ultimo anno e mezzo, ne hanno minato la stabilità e sfregiato la credibilità.
La pandemia ha stravolto i calendari delle competizioni nazionali e internazionali, con annesse preparazioni atletiche e diritti televisivi, ma soprattutto ha allontanato dal calcio l’unico elemento ancora genuino che si trova in uno stadio: il pubblico.
Il tifoso è colui che brucia di passione per la propria squadra, che dedica il suo tempo e i suoi soldi per l’agognato momento della competizione sportiva; vive l’attesa dell’evento mentre si prepara e si avvia verso l’arena dell’incontro, canta i cori a sostegno dei suoi beniamini, vive con passione, euforia e trasporto i novanta minuti fatidici dell’incontro dove manifesta la maggior parte dei sentimenti che l’individuo umano può esprimere: felicità, rabbia, gioia, dolore, tensione ed euforia.
Il tifoso è tutto questo, passione e sentimenti puri; l’insieme di decine di migliaia di singoli tifosi porta alla magia del tifo, un pulsare di passioni, emozioni e voci che da singole arrivano a diventare un tutt’uno.
Questa è la vera magia del gioco del calcio, la passione che da oltre un secolo suscita nei sostenitori, uniti sotto un comune sentire caratterizzato da cori, maglie colorate e bandiere.
Questo è ciò che è mancato da un anno e mezzo a questa parte, e nel silenzio delle passioni sono emersi in superficie, galleggiando come mucillaggine nei mari inquinati, coloro che questa passione non sanno neppure cosa sia, storditi da numeri che non sono quelli dei risultati del campo, ma quelli del business che negli ultimi venticinque anni si è pericolosamente gonfiato attorno a questo spettacolo unico.
La vicenda della “SuperLega” ha mostrato un lato ignobile, che taluni presidenti autoproclamatisi èlite del calcio europeo volevano compiere. Una ristretta cerchia di squadre che, vuoi per blasone, vuoi per fatturato, intendeva creare un supercampionato europeo a loro ristretto, uniti dal puro interesse economico per poter attrarre più introiti dai diritti televisivi e tamponare bilanci in semi-bancarotta.
In barba a criteri meritocratici legati al calcio giocato, alla passione dei tifosi e a uno spettacolo che è fatto anche di quelle sane dinamiche per cui Davide può battere Golia, non fosse altro perché il calcio non essendo uno sport ma un gioco, vive anche della componente “fortuna”, sempre in grado di fare la differenza tra squadre più blasonate e meno, oppure tra giocatori più quotati e meno.
L’elemento economico-affaristico dei diritti televisivi non è il solo che ha imputridito il gioco più bello del mondo. Ormai da molti anni i protagonisti del calcio non sembrano essere più i calciatori sul rettangolo di gioco e le prime pagine dei giornali sportivi non se le contendono più solamente le squadre con i loro risultati sportivi o i giocatori con i loro gesti tecnici, ma figure che sono cresciute più piano nel sottobosco-calcio come gramigna, sino a diventarne ingombranti, fondamentali, pressoché totalizzanti: i procuratori.
Per lo più giocatori falliti, frustrati dall’essere stati delle nullità sul rettangolo di gioco, hanno trovato il modo di rifarsi una dignità e una identità anche lontana dalla gloria dell’arena pallonara e dalla passione dei tifosi, frammezzandosi in quel territorio di nessuno che riguarda la compravendita dei calciatori, le trattative per l’aumento dell’ingaggio e tutto ciò che contrasta con la passione del senso di appartenenza dei tifosi.
Dalla sentenza-Bosman in poi queste piante rampicanti, nel disinteresse e nella colpevole paralisi della Fifa e dell’Uefa, hanno creato dei potentati economici in grado di moltiplicare i soldi per i propri assistiti e soprattutto per se stessi, spostando decine di giocatori alle loro cure in base a logiche di profitto personale, livelli di tassazione statuale, commissioni d’intermediazione e sfruttamento dei diritti d’immagine.
La situazione è nota da anni, ma nessuno sembra o vuole metterci mano per disciplinare un settore che sta facendo lievitare i costi di gestione del sistema calcio rendendolo sempre più pericolosamente a rischio default, con annesse pugnalate nella schiena a chi nel calcio mette per davvero i propri soldi, oltre che la propria passione: i tifosi.
Il caso Raiola-Donnarumma vs Milan è assolutamente emblematico e calzante. Un giovane portiere che ha esordito non ancora maggiorenne con la squadra che, a suo dire, era quella del cuore, il legame con un procuratore abile e spregiudicato, già noto a livello internazionale per la sua strategia fatta di continui spostamenti dei suoi assistiti per poter offrire loro stipendi sempre a lievitare, così come le commissioni a suo favore.
L’offerta della società di un congruo aumento di contratto al giocatore in scadenza di contratto, il quale prende continuamente tempo e si fa beffa della stessa, snobbandola di ogni risposta, anzi, giocando di sponda con il suo procuratore la ricatta con la presenza di offerte faraoniche da parte di fantomatici top-team europei per poter strappare un contratto faraonico.
Sino al finale, con il Milan finalmente tornato in Champions League, il Direttore tecnico Paolo Maldini, un monumento del calcio mondiale, che interroga per l’ennesima volta il giocatore sulle sue volontà e il presunto campione che avrebbe risposto: «Faccio quello che mi dice Mino»!Bisognerebbe immaginare la scena, i due faccia a faccia, il giovanissimo Donnarumma e Paolo Maldini, con trent’anni di più, totem rossonero e campione di livello mondiale, che a una domanda semplice e scontata dopo un anno di tira-molla, si sente rispondere quella frase da bambolotto ammaestrato. Patetico!
Avendo più di quarant’anni, seguo il calcio almeno dagli anni Ottanta e non ricordo un tale imperversare dei procuratori come nell’ultimo decennio, a maggior ragione in Italia con l’ingombrante figura di questo tale Carmine Raiola, detto Mino.
E dire che in Italia negli anni Ottanta e Novanta c’erano per davvero i migliori giocatori del mondo: Falcao, Platini, Rumenigge, Zico, Maradona, Gullit, Van Basten, Mattheus, Baggio, Baresi, Maldini, Batistuta, Weah.
E poi ancora nel decennio a seguire con Ronaldo (il Fenomeno), Del Piero, Totti, Zola, Shevchenko, Kakà e altri ancora.
Per non parlare dei portieri, fortissimi e istrioni come Zenga, Tacconi, Pagliuca, Sebastiano Rossi.
Ma, a parte i procuratori dei giocatori più iconici della loro epoca, come Maradona e Baggio, anche per le comparsate nella famosa trasmissione tivù “Il processo del lunedì”, non ricordo i nomi di altri procuratori. Saranno pure stati bravi, competenti, cinici e tignosi nelle trattative, ma nessuno che avesse le prime pagine dei giornali sportivi né tantomeno attivasse conferenze stampa!
Questa degenerazione è anche corresponsabilità di certa stampa sportiva e di certi giornalisti sportivi che, pur non essendo prezzolati dai procuratori, ambiscono a diventarne la prima donna del loro harem, a passare da scendiletto a loro primo cameriere. Non trovo altra spiegazione per dare tutto lo spazio che queste figure borderline hanno sulla stampa e sui media in generale, a discapito del gioco del calcio sul rettangolo verde che appassiona centinaia di milioni di persone nel mondo.
Come sanno benissimo i bambini, qualunque gioco, se privato della sua parte irrazionale, emotiva, fatta di passione, pathos, appartenenza, sentimento e imprevedibilità, muore, o comunque deperisce, avvizzisce, imputridisce.
Ecco, sarebbe buona cosa recuperare i valori veri che hanno fatto nei decenni questo gioco povero amato dalle masse, un gioco dominato ancora dal senso di appartenenza, dalle passioni, dai colori, dai cori e dalla imprevedibilità della dea bendata.
Ma per farlo bisognerebbe cacciare gli affaristi dal tempio del calcio, ma arrivati a questo punto, ci si accontenterebbe anche solo di ridimensionare il loro ingombrante e nefasto ruolo.
Il migliore augurio per qualsiasi appassionato di calcio è un aforisma del compianto giornalista e polemista sportivo Franco Rossi: «Perda il migliore!».
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