In ambito calcistico la notizia di questi giorni, ufficiale da sabato primo maggio con la vittoria dell’Inter a Crotone, è che la Juventus non vincerà il titolo di campione d’Italia per quest’annata 2020-21, che sarebbe stato il decimo (!) consecutivo. Che tale evento debba considerarsi una notizia ci spinge, in concorso con il recente pasticcio della Superlega, ad alcune considerazioni sullo stato attuale del gioco calcio.
In un paese come l’Italia che, diversamente dai paesi piccoli con poche grandi città (Scozia, Portogallo, Danimarca e altri) dove fatalmente vincono le solite due o tre squadre, vanta almeno otto compagini potenzialmente – e storicamente – protagoniste (le quattro delle due città metropolitane, le due torinesi più Napoli e Fiorentina), l’eccezione di una tale striscia vincente lunga ben nove anni deve far concludere che qualcosa non funziona del tutto. Ricordando che dal 1929-30, prima annata a girone unico, hanno vinto il campionato dodici squadre diverse, l’anomalia storica degli ultimi anni dovrebbe risultare evidente. Il punto è capire a cosa vada addebitata.
Partendo dalla considerazione che gli ultimi venti campionati (dal 2001-02 all’attuale) sono andati alle tre squadre – semplificando, ma non così tanto – più ricche, cioè Juventus, Inter e Milan, ecco che si scorge all’orizzonte l’indiziato numero uno: il dio denaro.
D’altronde il fenomeno della serialità delle vittorie pare essere una caratteristica dello sport contemporaneo, cioè dell’ultimo ventennio almeno, dove abbiamo assistito a strisce vincenti mai successe prima nel tennis, nel calcio di tutti i paesi, e soprattutto nella formula 1, non a caso la disciplina che richiede maggiori investimenti.
Sosteneva Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta che andava fatto un distinguo tra i termini “sviluppo” e “progresso”, spesso impropriamente utilizzati per indicare due momenti dello stesso fenomeno. Il compianto poeta li considerava invece antitetici. Definiva sviluppo il passaggio da una società agricola a una industriale, che avviene attraverso – semplificando – la modernizzazione economico-tecnologica; mentre indicava col termine progresso quell’elevazione delle condizioni umane, in termini sociali, morali e perfino spirituali, che deriva (o dovrebbe derivare) dallo sviluppo. Poi si chiedeva se l’indubbio sviluppo socio-economico conosciuto dall’Italia con il boom degli anni Sessanta abbia comportato anche progresso nel senso suddetto, concludendo che no.
Parafrasiamo ora l’idea pasoliniana per applicarla a quanto accaduto al pallone negli ultimi venti-trent’anni. Se la “sentenza Bosman” (leggasi proliferazione degli stranieri nel campionato), l’incremento vertiginoso dei diritti tv, quindi del giro di denaro verso le poche squadre vincenti, l’introduzione della regola dei tre punti per vittoria, le regole sul recupero di fine gara e perfino quelle sui colori delle divise possono rappresentare lo sviluppo “tecnologico” del calcio (in parte inevitabile, il mondo va avanti e non indietro), questo sviluppo ha comportato anche progresso? Se riteniamo che il progresso in ambito calcistico sia rappresentato dal grado di soddisfazione degli utenti (tifosi in senso stretto e appassionati in genere) in termini di bellezza dei match sul piano del gesto tecnico come (direi soprattutto) della condotta tattica, di trasparenza e meritocrazia nelle vittorie, di affezione ai giocatori della propria squadra o anche di altre quando meritevoli sul piano della classe e della condotta morale, allora chiediamoci se questi aspetti siano o meno migliorati – complessivamente – dalla citata “sentenza Bosman” del 1995 a oggi.
La questione è aperta. Personalmente penso di no, credo che gli aspetti elencati siano peggiorati, in alcuni casi anche di parecchio. Credo inoltre che l’origine di tutte le storture del calcio attuale sia l’introduzione della regola dei tre punti per vittoria, dalla quale a cascata discenda tutto il resto. Credenza senz’altro confutabile, possibilmente basandosi su dati di fatto e non su aprioristiche fascinazioni. Vado a spiegare. I tre punti a vittoria impongono di impostare squadra d’attacco, anche per coloro – e sono la maggioranza – che non hanno giocatori, indipendentemente dal reparto, con sufficiente capacità tecnico-atletica per farlo. Risultato: partite a volte inguardabili, con difese colabrodo da campetti parrocchiali e non da serie professionistica. Inoltre, la necessità di vittoria sempre e comunque aumenta di molto la tendenza a rivolgersi ai mercati stranieri, in maniera illimitata per quello intraUe, cosa che male si coniuga con un’adeguata cura dei vivai nazionali, con riflessi negativi sull’affezione degli appassionati e sulle squadre nazionali (vedi la mancata qualificazione per i mondiali 2018, cosa che non accadeva dal 1958). Poi i diritti tv fanno il resto. Solo pochi club – quelli vincenti, sempre gli stessi -, avendo accesso alla fetta maggiore degli introiti dai diritti tv, possono più degli altri impostare squadre d’attacco con una rosa di livello elevato, complice la “sentenza Bosman”, rendendo così scarsamente democratiche le chance di vittoria nei vari tornei, di fatto precluse alla maggioranza dei competitori. Perfino la regola del recupero a fine gara, a volte invero spropositato, va nella direzione di favorire la squadra più forte. Vista così, non mi pare una misura che produca progresso, cioè affezione del pubblico, trasparenza e democrazia sportiva.
Non è un caso che il presidente del Real Madrid, in recenti dichiarazioni, abbia lamentato il crescente disinteresse per il calcio da parte delle generazioni più giovani. Dichiarazioni fatte per lo più a supporto del progetto Superlega, ma che indicano una tendenza reale in atto, con buona probabilità indotta da quanto evidenziato sopra. Squadra d’attacco significa anche standardizzazione dei moduli di gioco, niente marcature e tutti in linea a muoversi all’unisono, gioco che poche compagini – quelle che possono permettersi stranieri tecnici e costosi – riescono a fare bene, le altre ci si arrabattano alla meglio (Germania-Brasile 7-1 del 2014: semifinale mondiale o partita da oratorio?). Quindi: lo sviluppo ha prodotto progresso? E allora, che cosa determina la disaffezione dei più giovani? Forse questo tipo di calcio podistico-zonarolo è diventato uno spettacolo complessivamente brutto da guardare, il quale sconta anche un problema di sovraesposizione mediatica, cioè troppo pallone in tv alla lunga stanca.
Ma il calcio non è comunque destinato a morire, almeno a breve-medio termine. Muove interessi finanziari enormi, come veicolo pubblicitario interessa a tutte le più grandi aziende del mondo. Perciò in molti e da più parti si sono accorti che il giocattolo si potrebbe rompere, e ipotizzano contromosse. Ritenuto impensabile un inviluppo verso le tattiche di un tempo (che sarebbe in realtà un progresso nei termini suddetti), le misure da introdurre potrebbero ispirarsi a quelle adottate dal basket NBA per evitare il ripetersi di strisce poco democratiche (Boston Celtics vincitori di dieci titoli su undici tra il ’59 e il ’69). Primo intervento: un tetto agli stipendi complessivi unito a un limite massimo di giocatori per rosa; esempio: 24 giocatori e 150 milioni di euro lordi per squadra. Secondo intervento: riduzione della lunghezza dei campionati, cioè meno quantità (di partite) sperando in una maggiore qualità (meglio un asino vivo che un professore morto… di fatica agonistica); che di tale riduzione ne gioverebbero anche i tornei internazionali, sia per club che per nazioni.
Regole di minimo buon senso, che auspichiamo introdotte per ridare credibilità e bellezza tecnico-tattico-agonistica al gioco che si diceva una volta il più bello del mondo, nel quale nonostante tutto ancora crediamo.
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