Nel convulso sviluppo della resa dei conti tra le forze di maggioranza, siamo adesso alla fase della “parlamentarizzazione della pre-crisi”, cioè ai dibattiti e alle votazioni parlamentari che avverranno in sequenza, lunedì alla Camera e martedì al Senato, a seguito delle comunicazioni del Presidente del Consiglio. Il precipitarsi degli eventi, però, non sta diradando le nubi, tutt’altro. L’affannosa ricerca del necessario consenso, in particolare al Senato, di parlamentari “responsabili” o “costruttori”, che dir si voglia, si intreccia con l’improvvisa costituzione di nuovi gruppi parlamentari. Il mutamento e l’integrazione della maggioranza parlamentare del Governo potrebbero essere sanzionati dal voto parlamentare. Ma, per la stabilità dell’esecutivo, sarà comunque necessario ridefinire con chiarezza l’accordo di programma. Altrimenti, il rischio della crisi rimarrà sempre imminente, seppure condizionato stavolta non dal partito renziano, ma dai nuovi adepti.
Nell’analisi di quanto sta accadendo non va trascurato un aspetto essenziale, ossia quale ruolo potrebbe essere assunto dal Presidente della Repubblica. Da tempo, infatti, il nostro sistema parlamentare si trova sotto tutela presidenziale. Si tratta di un’evoluzione da taluno criticata, ma che non ha trovato resistenza negli altri organi di indirizzo politico, Governo e Parlamento.
E allora, questa è la domanda, in che modo si concretizzerà la tutela presidenziale? Cosa potrebbe accadere, in particolare, se il Governo superasse la prova dei numeri in Parlamento, ma ciò non avvenisse “in base a valutazioni e accordi politici dei gruppi parlamentari su un programma per governare il Paese”? Proprio in questi termini, durante la crisi del primo Governo Conte, Mattarella ha indicato le condizioni in mancanza delle quali “la strada da percorrere è quella di nuove elezioni”. La posizione di Mattarella dovrebbe restare inalterata, chiedendo in sostanza a Conte di dimettersi egualmente, o potrebbe essere corretta in nome di nuove e diverse esigenze, e dunque consentendo a Conte di restare al Governo?
Innanzitutto, va rilevato che le condizioni poste da Mattarella nel 2019 riguardavano la costituzione di un nuovo Governo in seguito alla crisi ufficialmente aperta, situazione diversa dalla prosecuzione dell’esistenza di un Governo, come l’attuale, che non rassegnasse le dimissioni in virtù dell’appoggio “numerico” ancora esistente in entrambe le Assemblee parlamentari. In questo senso anche quando nel 2013 Napolitano chiese a Bersani una “maggioranza certa”, revocandogli poi l’incarico, si trattava di una condizione relativa ad un Governo ancora da formarsi.
Inoltre, il solo comunicato sinora ufficialmente proveniente dal Quirinale si limita a dichiarare che il Capo dello Stato “ha preso atto” dell’intendimento del Presidente del Consiglio di recarsi a rendere comunicazioni in Parlamento “per l’indispensabile chiarimento politico”. Non una parola in più. Qualcuno, poi, ha voluto leggere un’indicazione presidenziale tra le righe delle dichiarazioni rilasciate da Conte ai giornalisti subito prima delle dimissioni delle Ministre di Italia Viva, quando aveva negato l’intenzione di cercare parlamentari “qua e là”. Si tratta, però, di interpretazioni non confermate.
È evidente, allora, che sinora il Capo dello Stato ha inteso mantenere intatto il suo potere di intervento. Intervento che, anche sulla scorta dei tanti precedenti, il Presidente potrà dispiegare in entrambe le direzioni anche quando fosse superata la prova numerica della fiducia parlamentare: aiutando il Governo a proseguire nella non facile sopravvivenza, oppure, al contrario, se le condizioni saranno considerate insufficienti per mantenere in vita l’attuale esecutivo, promuovendone il ricambio sino a giungere all’extrema ratio dello scioglimento delle Camere.
È un potere ampio e latente, che è stato capace, come dimostrato dalla recente storia repubblicana, di salvare temporaneamente i governi in carica (si pensi a Napolitano con Berlusconi nel 2010) o, al contrario, di imporre, nei fatti, l’apertura della crisi nei confronti di governo non colpiti dalla sfiducia parlamentare (sempre Napolitano con Berlusconi nel 2011) e, addirittura, di giungere allo stesso scioglimento delle Camere con decisione autonoma (come Scalfaro nel 1994). Poteri, funzioni, e responsabilità da maneggiare con estrema cura, tenendo conto delle numerose condizioni di contesto, interne ed esterne, e sempre nella consapevolezza di dover agire quale “rappresentante dell’unità nazionale”, e dunque non ponendosi come antagonista, ma attenuando le divisioni e riattivando il funzionamento dei meccanismi istituzionali.
Insomma, al di là di quanto è scritto nei manuali di diritto costituzionale, occorre tenere conto del ruolo che il Quirinale svolge quando il Governo e la relativa maggioranza parlamentare manifestano gravi difficoltà e forti debolezze nell’affrontare sfide e problemi di particolare rilevanza. Soprattutto, va ricordato che nei prossimi mesi sarà presa una scelta decisiva per l’Italia del futuro, quella relativa al Recovery Fund e ai rapporti con l’Europa.
Il destino di Conte non è solo nelle mani dei parlamentari, ma anche, e soprattutto, in quelle di Mattarella.