In lavorazione e post-produzione da quasi un paio di anni, La cura si chiamava La peste, in evidente riferimento al classico di Camus di cui è un liberissimo rifacimento. In questo paio di anni, però, non è cambiato solo il titolo del film, ma anche la realtà e il mondo di cui il film fa parte e quindi la nuova opera di Francesco Patierno (in concorso alla Festa del cinema di Roma) si trova in quel limbo per cui è fuori tempo massimo per essere un instant movie, ma non è ancora distante abbastanza per poter riflettere con lucidità sugli ultimi due anni di pandemia.
Perché è questo il tema del film, scritto dal regista con il protagonista Francesco Di Leva e Andrej Longo, che racconta le storie di una troupe che nella Napoli del confinamento sta girando una versione da – appunto – il romanzo di Camus, ma le cui vicende fittizie si mescolano con la realtà che l’Italia stava in quel momento vivendo e con quelle degli attori che al film stanno partecipando.
Fin dalle prime sequenze, La cura mette in mostra le proprie ambizioni tragiche, metalinguistiche e persino mistiche (riflessioni su morte, peccato, punizione e redenzione) che non riescono però a concretizzarsi a nessun livello: il racconto di un momento altamente drammatico del nostro Paese, filtrato dal cinema – quello italiano mai come in questa crisi ha dimostrato la difficoltà di confrontarsi con il presente e l’attualità -, appare velleitario, la riflessione sui modi di rappresentare il dolore e l’emergenza si spengono dopo pochi tratti e il pretesto di Camus, con il suo carico di temi, svanisce tanto nella scrittura zoppicante quanto nella deludente direzione degli attori.
Si potrebbero citare Siccità o la miniserie This England come modi per raccontare un Paese e i suoi abitanti alle prese con emergenze sanitarie ed esistenziali, ma per farlo occorrerebbe capire realmente cosa Patierno volesse fare con questo progetto, forse sfuggito di mano senza che lui e gli sceneggiatori siano riusciti a elaborarlo, convinti che bastassero le riprese di Roma e Napoli deserte immortalate dai droni (immagini che dopo due anni sono ormai indigeste) o musiche banalizzanti per restituire il senso dell’abisso che abbiamo vissuto.
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