Quella che potremmo considerare la scena madre di La donna alla finestra non è il gran finale o l’omicidio al centro del racconto. È un video, posto all’inizio del terzo atto, in cui il personaggio principale annuncia il proprio suicidio. È un monologo toccante e commovente che la donna affida al proprio cellulare, non a un foglio, sperando forse che lo vedano più persone possibile. In quei minuti, il regista Joe Wright dice cosa sono le immagini per il film – e per lui – meglio di ogni altra sequenza nel film, che è un omaggio a Hitchcock e De Palma (ma anche ad altri thriller classici come La scala a chiocciola e Angoscia). Cosa sono, perlomeno, in questo preciso momento storico.
La donna che registra il video (interpretata da Amy Adams) è una psicologa che da un po’ soffre di agorafobia e non riesce a uscire di casa, parla da lontano col marito che si è separato da lei assieme alla figlia, non sa cosa fare della sua vita se non guardare dalla finestra, come James Stewart in La finestra sul cortile. E come lui, un giorno, vede l’omicidio di una donna (Julianne Moore) con la quale ha parlato da poco, il cui figlio (Fred Hechinger) ha iniziato a confidarsi un po’ con lei: anche qui il marito e colpevole (Gary Oldman) cerca di nascondere l’accaduto. Ma sarà vero? O il mix tra stato mentale, alcool e psicofarmaci distorce la percezione della realtà?
La sceneggiatura di Tracy Letts – dal romanzo omonimo di A. J. Finn – è stata rimaneggiata, il film dopo un paio di proiezioni prova è stato bloccato, cambiato, rimontato e parzialmente rigirato (da Tony Gilroy) e questo si vede nella poca compattezza della struttura e nel mancato equilibrio delle sue parti. Ciononostante, La donna alla finestra è un film da difendere perché è uno dei pochi contemporanei da grande pubblico – leggasi da piattaforma (Netflix, dopo che Fox/Disney hanno abbandonato la distribuzione in sala) – che non solo ragiona sulle immagini, cosa sono, cosa fanno, come agiscono sul pubblico, ma soprattutto che comunica e racconta attraverso di esse in maniera radicale, a suo modo.
Come quella sequenza che citavamo in apertura (l’annuncio del suicidio di Anna) dichiara, le immagini sono diventate l’unico possibile veicolo di comunicazione, non solo per un film, ma per il nostro mondo, non solo per i nativi digitali e la pletora di influencer, ma per qualunque essere umano che vive nel presente: le immagini formano ricordi, creano storie e strati emotivi, formano la realtà ben più dei fatti. Lo facevano, appunto, già dai tempi di Hitchcock e seguaci certi, ma l’immagine digitale è qualcosa di ben diverso, con la sua totale disponibilità sembra provvedere da sola alla sua stessa comprensione e decodifica, senza che ci sia bisogno di un occhio e di una mente umana.
E allora, Wright dà corpo, prova a rendere concreta e analogica la materia numerica di cui sono fatte le immagini contemporanee e soprattutto cerca di renderle di nuovo problematiche, incerte, di muoversi al di là della loro perfezione per concentrarsi sull’intuizione, sull’occhio e la mente che le elaborano: in una realtà fatta di sguardi altrove, la protagonista cerca di riappropriarsi del suo di sguardo, di ricomporre il proprio mondo attraverso i suoi occhi e le sue connessioni mentali, a ritornare in possesso dell’immagine e del suo senso. Per farlo, quindi, La donna alla finestra deve concedersi il lusso – in tempi di storytelling onnipresente – di sacrificare l’intreccio, il racconto e la loro perfezione in nome del racconto per immagini, non solamente con: tutto ciò che Wright, la fotografia di Bruno Delbonnel, il montaggio di Valerio Bonelli e le scene di Kevin Thompson mettono nei fotogrammi, ha il preciso scopo di illustrare la mente della protagonista e i suoi percorsi, di farne uno specchio per quella dello spettatore.
Così i difetti che il film si porta dietro e dei quali è stato accusato – kitsch, sopra le righe, poco credibile, scritto male e recitato convulsamente – contribuiscono invece a un modo di parlare delle immagini e del loro influsso sulle persone, di scardinare i luoghi comuni che la società dell’auto-spettacolo porta con sé. Per questo, quella confessione è la scena madre del film, perché incarna il paradosso di quest’epoca: mettersi a nudo, esporsi, essere al centro di qualcosa reclamando di farsi da parte, pretendo di scomparire. Qualcosa che è la negazione di un’immagine e che infatti è impossibile. Oggi come, forse, ai tempi di Hitchcock.
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