Gentile Direttore,

si sono evidenziate conseguenze – alcune conseguenze – della pandemia; una di quelle è la fame. Si incomincia a vedere gente che ha fame, perché non può lavorare, non aveva un lavoro fisso, e per tante circostanze. Incominciamo già a vedere il “dopo”, che verrà più tardi ma incomincia adesso”.



E’ un passaggio recente della messa di papa Francesco a Santa Marta del 28 marzo quando nell’intenzione di preghiera, ha rivolto il suo pensiero a quanti iniziano a subire le conseguenze economiche di questa crisi sanitaria.

“Fame”. Una parola che nella nostra società occidentale, europeista e italiana veniva abbinata, consapevolmente o meno, alle situazioni marginali ed emarginate del vivere, alle periferie “dell’impero”.



Quelle situazioni (ma erano volti, occhi di uomini e donne da guardare come da sempre ci ricordava papa Francesco parlando dei poveri) che nell’immaginario medio-collettivo confinavamo a lato, cercando di metterci a posto la coscienza con l’opera buona (comunque giusta da fare) o con il fioretto di non mangiardolciinquaresima.

Fame, quella parola che i nostri vecchi pronunciavano quasi con timore referenziale per l’esperienza vissuta durante la guerra, che si traduceva per noi giovani nipoti con le affermazioni che apparivano quasi dei rimproveri del tipo “il pane non si butta” o “non lasciare niente nel piatto”.



Per questo sentirla da quel pulpito, da quella “persona” deve farci riflettere e cambiare. Il Papa non interviene a seconda dei sondaggi o dei like, non adegua i suoi interventi secondo opinione pubblica, ma secondo verità. Quella verità che deriva dall’osservazione della realtà possibile solamente a chi è a contatto con la realtà stessa, che vive ed è toccata dalle situazioni e dai bisogni, appunto come la chiesa e le sue espressioni sociali.

Riflettere perché anche da diversi soggetti che operano sul campo, dal Banco Alimentare alla Caritas, si erano già manifestati segnali di preoccupazione innanzitutto nell’attualità di oggi con le difficoltà di consegna dei pacchi o di distribuzione, ma anche come previsione nell’immediato futuro. Fra parentesi, colpisce come nelle difficoltà o nel dramma sociale, emerga, quasi con prepotenza, il desiderio del bene, di quel bene comune che si stava dimenticando e tanti, anche giovani, con le modalità previste dalla legge e con il supporto degli enti locali, si siano messi a disposizione per i vecchi, i soli, gli abbandonati, portando la spesa o dando un supporto anche solo telefonico.

Cambiare. Non lo dice la teoria sul mondo o sull’uomo, ma lo fa presagire quel sentimento e desiderio legato all’esperienza di questo periodo che tutti viviamo e che ci fa dire “non sarà più come prima”. E’ questo un  periodo certamente carico di dolore e morte non misurabile quantitativamente – è un “io” unico, irripetibile che ci lascia, portando con sé qualcosa di noi – , ma anche di ri-scoperta di quell’esigenza di bene, di verità nei rapporti, di abbraccio all’altro che sentiamo “stranamente” emergere dal profondo di noi stessi.

Saprà la politica rispondere a questa sfida della “fame” che è giunta? Saprà ciascuno di noi tenere desta quella domanda di verità che sta intuendo? Al fondo la responsabilità è identica: non l’immagine o l’ideologia dettano la strada, ma quell’esigenza di bene che si porta nel cuore. La creatività, anche politica ed economica nasce da qui, la ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra lo testimonia.   

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori