In crisi di astinenza da reti unificate, Giuseppe Conte ha convocato ieri pomeriggio una conferenza stampa nel cortile di Palazzo Chigi per auto incensare i meriti del governo, il coraggio delle scelte antivirus, i numeri incoraggianti dopo la riapertura, eccetera. “Siamo tra i primi Paesi europei a riprendere le attività perché abbiamo accettato forti sacrifici”, ha detto. Tutto sotto controllo. Si è ben guardato, però, dal ricordare che quasi nessuna delle altre nazioni europee ha sprangato tutto come da noi: in molte parti, come per esempio in Germania, le fabbriche hanno continuato a lavorare come prima della pandemia e non si sono persi così tanti posti di lavoro.



Dopo l’incenso, il premier ha sparso il profumo delle promesse: digitalizzazione, innovazione, investimenti, scuole nuove, burocrazia cancellata, riforma fiscale, giustizia veloce, stati generali dell’economia, transizione verso uno sviluppo sostenibile, le “migliori intelligenze del Paese” convocate a Palazzo Chigi, treni veloci perfino in Sicilia e addirittura “nessun pregiudizio per il ponte sullo Stretto di Messina”. Mancava soltanto il milione di nuovi posti di lavoro e avremmo avuto il Berlusconi di quasi 30 anni fa. “Deve essere un nuovo inizio”, ha detto Conte. Poi è bastata la domanda di un giornalista per fare cascare il castello di carte: dove sono i soldi? E qui il capo del Governo ha abbassato la voce e come in confessionale ha dovuto ammettere la dura verità. I soldi non ci sono, l’Europa non li darà presto, e anche ottenere un’anticipazione sarà praticamente impossibile.



Dunque, di che si parla? Quale è l’Italia che si vuole ricostruire? Dove sono le idee, il progetto, la strada per raggiungere gli altisonanti obiettivi? “Stiamo lavorando”, è la risposta. Il discorso di ieri è come un libro fatto soltanto dai titoli dei capitoli. Pochissime le notizie concrete. La prima: i Benetton e Atlantia devono stare all’occhio perché, secondo l’Avvocato del popolo, gli estremi per togliere le concessioni autostradali ci sono tutte per “conclamati inadempimenti” del concessionario, e se dipendesse da Conte il contratto si straccia domani mattina. Due, il non percepito Vittorio Colao sta per consegnare il suo inutile piano di sviluppo che il governo prenderà e metterà in un cassetto senza neppure aprirlo, e poi toglierà il disturbo. Tre, anche Confindustria deve stare in guardia perché Conte non solo ha “respinto al mittente” le accuse rivolte pochi giorni fa dal neopresidente degli imprenditori, Carlo Bonomi (“questa politica fa più danni del Covid”), ma ha anche dato una lezione di tecnica imprenditoriale ai signori del capitale, spiegando loro che cos’è un’azienda, qual è il suo ruolo nel Paese, quale la responsabilità sociale e quale il margine di profitto che chi rischia è tenuto a mettersi in tasca. E sul Mes il premier ha fatto capire che dovremo accettarlo (“esamineremo e il Parlamento deciderà”).



Conte è sempre più in difficoltà nell’azione politica e negli equilibri interni alla maggioranza, come testimonia il calo nei sondaggi. Il Pd non ne può più, Di Maio altrettanto, l’opposizione il giorno prima l’ha contestato in piazza. L’ennesima arringa in mondovisione gli doveva servire per riconquistare centralità e aprire una nuova emergenza dopo quella della pandemia: l’emergenza riforme da fare ora o mai più. Ma ormai la tecnica dell’annuncio a vuoto è troppo smaccata per fare breccia. Invece che fare il cerimoniere e dare la parola ai giornalisti, il portavoce Rocco Casalino avrebbe dovuto stare davanti al computer e guardare il discorso dalla pagina Facebook di Conte: si sarebbe reso conto che le reazioni della gente in diretta (quindi non mediate dai giornali e tv) erano in gran parte di rabbia ed esasperazione. Che sembrano destinate a crescere ancora.

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