La Federal Reserve ieri ha abbassato i tassi per la prima volta da marzo 2020 con un taglio di 50 punti base. Gli investitori si sono presentati all’appuntamento senza le idee chiare perché il campo era quasi equamente diviso tra chi si attendeva un taglio di 25 punti e chi di 50. Bisogna però premettere che solo settimana scorsa gli investitori erano praticamente certi di un taglio di appena 25 punti.



Jerome Powell ha inquadrato questa mossa in uno scenario di fine dell’inflazione e di indebolimento del mercato del lavoro. La banca centrale può smettere di preoccuparsi dei prezzi e invece cominciare a preoccuparsi dell’economia in rallentamento; con il taglio di ieri la Fed gioca d’anticipo. Non è però chiaro di quale rallentamento si tratti, se sarà moderato o grave. Tutto lascia pensare che la Fed si attenda la seconda opzione perché l’inflazione “supercore”, che sarebbe l’indice preferito dalla banca centrale americana, è ancora al 4%, perché il Pil americano è ancora in espansione e perché il tasso di disoccupazione in realtà è ai minimi.



È chiaro che questi indicatori raccontano una storia passata forse superata dall’andamento attuale, ma, a oggi, nessuno può dire con certezza quale sia la dimensione e la durata della crisi. L’ultimo errore di politica monetaria, quando l’inizio di una fase inflattiva che non si vedeva da due generazioni è stato scambiato per un fenomeno transitorio, è ancora fresco nella memoria di tutti. Ci si può legittimamente chiedere se sia ipotizzabile una crisi grave negli Stati Uniti dati questi livelli di politica fiscale; il deficit americano di questi mesi è ancora a livelli mai visti escluse guerre e pandemie. Sia Kamala Harris che Donald Trump promettono un rilancio dell’economia che è difficile se non impossibile in qualsiasi scenario di austerity; più che minore deficit sembra che il futuro prossimo preveda almeno questi livelli di spesa se non, probabilmente, superiori.



Il dollaro debole è un valore per un Paese che vuole espandere la propria industria e rafforzare il settore manifatturiero. Questa aspirazione è condivisa dalla politica americana a prescindere dagli schieramenti. Per la Fed, si legge nel comunicato di ieri, i rischi di centrare gli obiettivi di occupazione e inflazione sono bilanciati. La decisione di ieri, però, è una scommessa su un imminente e significativo rallentamento economico perché i dati sui prezzi in realtà non giustificano questo taglio se non nella convinzione, appunto, che l’inflazione sia storia passata per via di un’imminente recessione o quasi. Non sembra però che i mercati siano del tutto convinti di questa opzione. Se la recessione arriva con questi livelli di deficit ci si attenderebbe un’altra reazione degli investitori e molta più volatilità soprattutto sulle obbligazioni. L’inflazione, in ogni caso, è un valore per un Paese che non ha una ricetta per risolvere un deficit fuori controllo.

La Banca centrale americana detta la linea e la Bce dovrà seguire in un modo o nell’altro, volente o nolente. La Banca centrale europea è condannata a seguire la Fed anche sulla strada di una politica monetaria espansiva. L’ultima cosa che vuole l’Europa, in una fase di guerra commerciale e alle prese con una crisi energetica, è ritrovarsi con un euro forte. L’inflazione è il danno collaterale, forse scientemente accettato, delle scelte politiche americane; l’aumento dei prezzi, però, può fare molto male al potere d’acquisto dei salari e scava fratture dentro la società. Gli Stati Uniti sembrano accettare un quadro di tassi più bassi del dovuto e di prezzi più alti del necessario e continuano a essere un esportatore netto di inflazione.

Due giorni fa, il candidato alla Vicepresidenza di Trump, JD Vance, in un’intervista a CNBC, ha dichiarato che il primo atto della Amministrazione sarà “trivellare e trivellare”. Non che sotto Biden sia stato molto diverso perché sotto la presidenza che si conclude gli Stati Uniti hanno aumentato del 20% l’estrazione di petrolio. Questo è un elemento cardine di un programma fatto di attenzione alla manifattura, dollaro debole e contenimento dei costi, inevitabili, che l’inflazione comporta per le famiglie; quindi tutto va bene e la transizione, ovviamente, scompare dalle priorità della politica. Per l’Europa tutto questo è un “dato” che viene subito. Se lo scenario rimane la svalutazione competitiva e l’inflazione come strada maestra per uscire dal dilemma dei debiti statali esplosi, il buon senso suggerirebbe ogni attenzione ai costi subiti dalle famiglie. Questo l’America l’ha compreso. L’Europa invece non molto.

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