Il 10 dicembre 1970 – dopo l’anteprima londinese del giorno prima, a un mese esatto da quella statunitense a New York del 9 novembre – arrivò nelle sale britanniche il film La figlia di Ryan (Ryan’s Daughter), scritto da Robert Bolt, diretto da David Lean, fotografato da Freddie Young, musicato da Maurice Jarre e interpretato da Robert Mitchum, Sarah Miles, Christopher Jones, Trevor Howard, John Mills, Leo McKern e Barry Foster.



Nel decennio precedente, gli inglesi Bolt, Lean e Young e il francese Jarre erano stati rispettivamente sceneggiatore, regista, direttore della fotografia e autore della colonna sonora di Lawrence d’Arabia (1962, 7 Oscar, tra cui Lean, Young e Jarre) e de Il dottor Živago (1965, 5 Oscar, tra cui Bolt, Young e Jarre). Il primo aveva inoltre firmato lo script di Un uomo per tutte le stagioni (1966, 6 Oscar, tratto dalla sua omonima opera teatrale del 1960) con cui aveva vinto l’Academy Award per la migliore sceneggiatura non originale. Quanto agli incassi, stando al solo mercato domestico (quindi senza considerare quelli a livello mondiale), Lawrence aveva raccolto circa 37,5 milioni di dollari mentre Živago quasi 112 milioni, facendone il più grande successo della Metro Goldwyn Mayer dopo Via col vento (8 Oscar e 189,5 milioni di incassi domestici): si stima che i due film fossero costati rispettivamente 15 e 11 milioni. Insomma: un quartetto “portafortuna” di maestranze europee al servizio di Hollywood che ebbe quindi carta bianca in occasione della loro successiva collaborazione finanziata ancora dalla MGM, appunto La figlia di Ryan.



Non si può dire che al botteghino andò male: budget di poco più di 13 milioni e incassi (sempre a livello domestico) di quasi 31 milioni. Ovvio che chi negli uffici della produzione pensava di avere tra le mani un nuovo Živago non trovò motivi per sorridere… Ma il vero disastro per la pellicola e quindi (soprattutto) per il suo regista – un «intrattenitore» il cui nome era diventato sinonimo di “kolossal con l’anima”, un cineasta di razza a suo agio tanto su un set quanto in una sala di montaggio (che era stato infatti il suo primo posto di lavoro nel mondo del cinema) – fu semmai di altra natura, in quanto la critica gli voltò ferocemente le spalle con malcelato disprezzo, se non aperta ostilità: le prime avvisaglie di un tale atteggiamento si erano avute proprio con Živago, il cui clamoroso successo aveva però finito per silenziarle. Invece, con l’avvento del Sessantotto e l’inizio degli anni Settanta, l’aspra contestazione del “cinema che fu” non tardò a farsi sentire nei confronti di questa saga romantica giunta fuori tempo massimo, un’altra epopea leaniana su larga scala (fin troppo larga per moltissimi, vista anche l’esilità della trama, per la quale Bolt aveva preso spunto da Madame Bovary di Gustave Flaubert), ma indietro rispetto ai tempi, anche dal punto di vista della logica produttiva: erano infatti usciti nel frattempo titoli come Il laureato (1967), Easy Rider (1969), Il mucchio selvaggio (1969) e Patton, generale d’acciaio (1970), insieme ad altri film a basso budget e a tutta un’intera nuova ondata di cinema indipendente.



Si diceva però dell’esile trama (di contro ai 195 minuti di durata): nel 1916, sullo sfondo della Prima guerra mondiale e nel periodo subito successivo alla Rivolta di Pasqua, a Kirrary, piccolo villaggio costiero dell’Irlanda rurale, la giovane Rosy (Sarah Miles), unica figlia di Thomas Ryan (Leo McKern), proprietario del pub locale e all’occorrenza spia per gli occupanti inglesi, si sposa con il maestro di scuola Charles Shaughnessy (Robert Mitchum), un tanto comprensivo quanto modesto uomo di mezza età rimasto vedovo. Rosy, impreparata alla stabilità della vita coniugale, intreccia un’appassionata relazione con un giovane ufficiale appena giunto a capo del presidio militare britannico, il maggiore Randolph Doryan (Christopher Jones). I pettegolezzi di rito sono pronti a scoppiare, insieme a una spettacolare tempesta che vede coinvolti tutti gli abitanti di Kirrary nel mettere in salvo dalle acque dell’Atlantico un carico di armi tedesche destinate ai ribelli guidati da Tim O’Leary (Barry Foster), poco prima del drammatico finale… Il tutto sotto lo sguardo innamorato e innocente di Michael (John Mills, Oscar per il migliore attore non protagonista), muto e deforme “scemo del villaggio” (e figura cui era dedicata la prima stesura dello script, intitolata Michael’s Day, poi corretta in Ryan’s Daughter).

Al di là del sontuoso lavoro in pellicola da 70 millimetri di Freddie Young (premiato con il suo terzo Oscar), il motore del film sta nelle dinamiche che agitano il personaggio di Rosy, per come espresse anche nel dialogo tra lei e padre Hugh Collins (Trevor Howard, che per Lean era stato protagonista del celebre Breve incontro venticinque anni prima), il prete del villaggio, poco prima del matrimonio: «Dio lo ha comandato per tre motivi. Il primo perché tu e Charles possiate esservi di reciproco conforto nelle giornate lunghe e monotone e nelle sere di stanchezza e noia. Lo capisci questo?» «Sì» «Mh… Il secondo perché procreiate dei figli e li alleviate da buoni cattolici. Beh, questo lo capisci…» «Sì» «E il terzo, per la soddisfazione della carne» «Sì…» «Questo ti spaventa?» «Sì» «Non c’è niente di cui avere paura, Rosy… una funzione del corpo» «Immagino che tutte le ragazze ne siano un po’ spaventate, prima…» «Oh, anche i ragazzi» «Sì!?» «Oh, sì!» «Mi renderà una persona diversa, vero?» «Il matrimonio?» «No, la soddisfazione della carne» «Beh, è una porta che non ho mai attraversato personalmente, ma… Nooo, non ti renderà una persona diversa» «Io lo voglio!» «Bambina, che cosa ti aspetti?» [musica e stacco sui gabbiani in volo] «Ali, vero?».

Un dialogo seguito da un altro scambio, ancora più esemplificativo della protagonista, dopo le sue prime “delusioni” matrimoniali: «Ferma! Allora, qual è esattamente il problema tra te e Charles?» «Nessun… nessun problema» «Mi stai chiedendo di credere che sei felice?» «Non Le sto chiedendo niente» «Sei felice?» «No…» «Perché no?» «Non lo so» «Oh, andiamo Rosy… Cerca di fare un tentativo» «Non lo so… D’accordo… Perché sono stupida, presuntuosa, egoista e ingrata come Lei mi ha sempre detto! Ho tutto ciò che volevo, no?» «Ce l’hai! Che altro vorresti allora?» «Non so neanche questo» «Questa è una bugia» «Non lo è… Come posso saperlo? Non so nemmeno cosa c’è di più!» «Ti sei trovata un brav’uomo ora, no?» «Il migliore» «Beh… E avete abbastanza denaro? Non molto, ma quel che basta…» «Sì» «E sei in buona salute. Non sei malata?» «No» «Beh, non c’è nient’altro, ragazza capricciosa!» «Ma c’è!» «Non c’è!» «Io so che c’è. Deve esserci, padre Hugh!» «Perché, Dio benedetto, perché deve esserci!? Perché lo vuole Rosy Ryan!?» «Sì!» […] «Rosy, non coltivare i tuoi desideri. Non puoi fare a meno di averne, ma non coltivarli, o finirai per avere ciò che desideri, quant’è vero Iddio».

Ma proprio a padre Hugh lo script affida le ultime parole prima dei titoli di coda: «Charles… Penso che tu abbia in testa l’idea che tu e Rosy dovreste separarvi. [Charles lo guarda] Già, come pensavo… Beh, forse hai ragione, forse dovresti, ma io ne dubito. E questo è il mio regalo d’addio per te, questo dubbio. [Spinge Charles dentro la vettura e chiude lo sportello] Dio vi benedica! [La vettura riparte] Non lo so… Proprio non lo so… Andiamo, Michael».

La figlia di Ryan fu l’ultimo film britannico girato in 70 millimetri prima dell’Hamlet (1996) adattato, diretto e interpretato da Kenneth Branagh e rappresentò un inaspettato e amarissimo tonfo critico tale da tenere Lean lontano dal set per quattordici anni, fino a Passaggio in India (1984), ultima pellicola della sua cinquantennale carriera.