La presa di Damasco da parte dei miliziani di Hayat Tahrir al Sham (HTS) guidati da Abu Muhammad al Jawlani senza sparare praticamente un colpo e la dissoluzione del regime di Assad sollevano molti interrogativi sul ruolo di Erdogan. Una fascia di sicurezza al confine tra Turchia e Siria, il contenimento dell’Iran, il ritorno in patria di almeno una parte dei quattro milioni di rifugiati siriani che ora si trovano sul territorio turco; e tutto con il beneplacito della Russia, alla quale in questo momento basta conservare le sue basi militari. Sono questi, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, i motivi che hanno indotto Ankara a vedere con favore l’avanzata di Hayat Tahrir al Sham in Siria. Anche perché, di fatto, si tratta di proxy della Turchia, che li sostiene militarmente.
È un caso che HTS abbia attaccato dopo il sostanziale fallimento dei colloqui fra Erdogan e Assad per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi?
La Turchia ha cercato di capitalizzare l’avanzata dei ribelli, un’opposizione al regime storicamente appoggiata dai turchi. In quello che sta succedendo, però, non c’è un coinvolgimento diretto di Ankara: si tratta di suoi proxy. Tutto nasce perché HTS si è mossa come risposta a un attacco subito dalle forze filo-siriane che avrebbe generato un nuovo flusso di migranti verso il confine della Turchia. Una rappresaglia per riconquistare alcuni territori che, arrivando all’autostrada M5 (che attraversa tutto il Paese, nda), avrebbero trovato campo libero. HTS ha proseguito sfruttando il vuoto che si è creato perché le milizie filo-iraniane e quelle filo-russe erano impegnate altrove.
Come si è arrivati a questo punto?
Erdogan aveva intavolato un processo di normalizzazione con la Siria mediato dalla Russia, ma nonostante i colloqui tra i ministri degli Esteri e l’intelligence, tutto si è arenato perché Assad trovava indigeribile la presenza delle forze turche in alcuni cantoni siriani; Ankara invece non vuole rinunciarvi perché li usa come avamposti per controllare i curdi.
Uno stallo che ha portato i turchi a considerare idee diverse su come risolvere la questione?
Di fronte a un Assad indebolito, la Turchia ha visto con favore l’avanzata di questi “movimenti di opposizione”. L’obiettivo era fare pressione su di lui per tornare al tavolo negoziale e ottenere garanzie in chiave anti-milizie curde.
Come va inquadrato il problema dei rifugiati?
In Turchia ci sono più di 4 milioni di siriani e questo comporta un problema di inclusione sociale, soprattutto in un momento in cui ci sono forti istanze nazionaliste e una sofferenza economica. In campagna elettorale, Erdogan si è espresso per la difesa dei loro diritti, ma ci sono pressioni nazionaliste su questo tema. Considerando che il 42% dei siriani in Turchia arriva da Aleppo, la “liberazione” della città, dal punto di vista turco, ora mette in sicurezza il territorio e permette il rimpatrio di un gran numero di siriani.
Secondo alcuni analisti HTS non può aver agito da solo: anzi, potrebbe averlo fatto in virtù di un piano nel quale c’è proprio lo zampino della Turchia, che non si sarebbe limitata, quindi, a sfruttare la situazione. Cosa può dirci?
HTS sono proxy della Turchia, quindi Ankara sapeva ma ha lasciato fare. Questa è un’opposizione che ha sempre goduto del sostegno armato dei turchi, soprattutto in termini di addestramento. Mi riferisco a HTS ma anche all’Esercito nazionale siriano, che in realtà è un gruppo di opposizione. Tutto questo è successo senza che ci fosse una presenza turca diretta in queste formazioni. Erdogan ha tenuto conto della situazione e anche della promessa di Trump di ritirare le truppe USA dal territorio siriano, che apre una serie di incognite, in particolare in riferimento alle milizie curde.
La caduta di Assad era un obiettivo della Turchia?
Prima dell’avanzata di HTS, Hakan Fidan, il ministro degli Esteri turco, aveva detto che la Turchia non vuole un regime change in Siria, ma una normalizzazione dei rapporti e il riconoscimento delle istanze dell’opposizione. Ankara non ha interesse che nella regione si fomenti la violenza; ha cercato la normalizzazione anche con l’Egitto e i Paesi del Golfo e tende a proporsi come balancing actor dell’area. Dietro tutto questo, però, vedo anche un accordo con la Russia.
Ankara e Mosca hanno una visione comune sulla situazione mediorientale?
La prima telefonata, nel momento in cui HTS si è diretta verso Aleppo, è stata fra il ministro degli Esteri turco e Sergej Lavrov. Turchia e Russia appartengono al gruppo di Astana, hanno interessi condivisi e hanno dato vita a un’alleanza “a geometria variabile” per cui, anche se sostengono gruppi diversi, sono sempre stati attenti a non pestarsi i piedi. Credo che alla Russia, impegnata su altri fronti, convenga continuare secondo questa logica. La grande urgenza russa è quella di mantenere le sue basi in Siria, a Tartus e a Latakia.
Dove sono le maggiori incognite nella situazione cui stiamo assistendo?
La grande tensione la vedo soprattutto fra Teheran e Ankara, ma ogni volta che la Turchia è intervenuta con le sue forze in Siria c’è sempre stato un accordo dietro le quinte con Mosca.
Di cosa si accontenterebbero i turchi per chiudere la questione siriana? Vogliono che i territori a Nord restino in mano alle forze ribelli che sostengono?
Sì. Nel momento in cui Assad non avesse ceduto, Ankara si sarebbe accontentata di un cambio di regime, ma lasciando così com’è ora la situazione territoriale. Erdogan vuole il contenimento delle milizie curde e un regime che accontenti la Turchia nella tutela dei suoi interessi, cosa che Assad non faceva.
(Paolo Rossetti)
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