Ad Adria c’è Borgo Dolomiti, al di là della ferrovia, un intero quartiere rinato grazie agli aiuti giunti dal Trentino: a San Vigilio, vescovo e martire, patrono di Trento, è anche dedicata la chiesa parrocchiale. A Rosolina c’è il Villaggio Norge, cento alloggi prefabbricati (successivamente trasformati in muratura) eretti grazie alla Croce Rossa norvegese, che inviò anche il necessario per una “casa collettiva”, che per molti anni fu la sede di un ambulatorio medico e di un teatro.
Sono solo due esempi della solidarietà internazionale che quella striscia di terra martoriata e quasi scomparsa sotto l’imponenza dell’alluvione suscitò in tutto il mondo: il Polesine, etimo latino che significa “terra paludosa”, usato per indicare le isolette al centro di qualche fiume, un territorio a stento emerso tra Po e Adige, lungo fino a confondersi con il salmastro del Delta.
Era il 14 novembre del ’51, la guerra era finita da sei anni, il Paese tentava timidamente di tornare alla vita, ma in Polesine l’alta marea dell’Adriatico, le piogge insistenti da giorni, la configurazione inadatta degli argini, i forti venti di Scirocco, la mancanza di comunicazioni, contribuirono tutti insieme alle tracimazioni del grande fiume sulla sponda depressa, con almeno tre rotte, nei territori di Canaro e Occhiobello. Fu la più grande alluvione registrata in Italia: circa due terzi della portata del Po lasciò l’alveo e si riversò su campagne e paesi, acqua e fango sommersero tutto, mentre anche la gestione dell’emergenza finiva impantanata nelle incertezze e i veti politici che bloccarono ogni capacità di reazione. I varchi rimasero incredibilmente aperti per molte settimane, fino al 20 dicembre, mentre i soccorritori (moltissimi i volontari) contavano i morti, circa cento, e aiutavano gli sfollati, poco meno di 200 mila. Da quei giorni l’esodo fu costante: il Polesine vide calare la sua popolazione del 22%.
Adesso, a 70 anni dalla tragedia, Fondazione Cariparo ha voluto ricordarla con un libro (“I giorni del diluvio. Il Polesine e la Grande Alluvione del 1951”, a cura di Francesco Jori) e una mostra (“70 anni dopo. La Grande Alluvione”) a palazzo Roncale, Rovigo: un’esposizione “che capovolge il modo di guardare all’evento che ha cambiato la storia del Polesine e del suo popolo, cercando di cogliere cosa quella tragedia abbia generato nel tessuto fisico, sociale ed economico del Polesine di oggi. Un’indagine su ‘cosa’, oltre al ricordo, al dolore, alle tragedie personali e sociali, derivi – 70 anni dopo – dal tragico evento che ‘bloccò’ un territorio. Che orgogliosamente ha avuto la forza di riprendersi”.
“Molto prima dei social media – ricorda Jori -, quando persino la televisione aveva ancora un ruolo estremamente marginale nella vita delle persone, l’alluvione del 1951 segna un cambio di passo epocale, diventando a tutti gli effetti il primo disastro naturale trasformato in un caso mediatico in Italia. In quei giorni drammatici, i più grandi inviati del giornalismo internazionale raggiunsero il Polesine, allora luogo sconosciuto ai più, per raccontare una catastrofe naturale senza precedenti. Grazie a queste testimonianze, è nato un nuovo modo di fare notizia, di rendere mediatici gli avvenimenti e, ancor più importante, è iniziata una gara di solidarietà nazionale e internazionale per gli alluvionati”.
Nel ’51 la televisione praticamente non esisteva: la Rai iniziò le trasmissioni regolari solo nel ’54. C’era la radio, però, e chi c’era ricorderà benissimo i collegamenti dei suoi radiocronisti inviati in Polesine, e la loro solidarietà (Rai – Radio italiana – Catena della fraternità). E sono davvero passati alla storia i resoconti di autori che proprio da lì si fecero conoscere, come Gian Antonio Cibotto e le sue “Cronache dell’alluvione”, o Maner Lualdi, aviatore e inviato del Corriere e della Domenica del Corriere. Ma nessuna cronaca ha mai potuto davvero restituire il dramma di centomila ettari allagati, più della metà dell’intero Polesine, che coincide grossomodo con l’intera provincia di Rovigo; la miseria e la fame che spinsero quasi duecentomila sfollati a lasciare tutto quel poco che ormai non avevano più e cercare altrove una possibilità di vita; l’insipienza e la cialtroneria che caratterizzarono prima la gestione della situazione idrogeologica del territorio, e poi addirittura la gestione degli interventi e degli aiuti, dove la contrapposizione ideologica limitò non poco il coordinamento delle azioni.
Sono passati settant’anni, moltissime famiglie sfollate non hanno più fatto ritorno, contribuendo alla spopolazione che in Polesine fino a oggi non è mai finita: nel ’51 i polesani erano più di 350 mila, nel 2001 solo 240 mila. Cinquant’anni fa nacque anche l’associazione Polesani nel mondo, fondata dal prete degli emigranti, don Tonin, che “voleva far riallacciare i rapporti tra i polesani emigrati in seguito all’alluvione del 1951 e la terra di origine”. Ma la resilienza degli abitanti rimasti ha portato a superare nel tempo la vulnerabilità idraulica, il decentramento rispetto alle traiettorie di maggiore crescita industriale, la cronica carenza infrastrutturale, puntando più sulla qualità dei servizi e sulla specializzazione, soprattutto nel settore primario. Oggi le ostriche del Delta si sono ritagliate una nicchia di rispetto anche nelle cucine più blasonate, così come la produzione delle vongole veraci, il riso è diventato una voce importante nella bilancia agroalimentare, ma anche nella tecnologia e nell’industria si sono raggiunti traguardi di rilievo: il distretto della giostra (ideazione e produzioni di attrazioni) è un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale. E l’appeal del Delta sta facendo sempre più presa su un turismo slow e sostenibile.
“Il Polesano sa mettere i problemi in fila e li affronta uno alla volta. Con calma, resistenza e resilienza. E alla fine arriva al risultato”, ha detto recentemente il prefetto di Rovigo, Maddalena De Luca. Il risultato è che l’alluvione del ’51 si può dire sia stata per il Polesine il suo anno zero: da allora a oggi i polesani sono cambiati, il territorio è riemerso e ha conquistato un rispetto più consapevole. Nella generale nuova attenzione per “gli angoli”, insomma, il ritaglio del Polesine potrebbe conquistare una dimensione sempre più attrattiva.
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